Finirà tutto quando il prefetto Valiante, a Foggia dal 4 agosto 2022, lascerà il capoluogo per altra sede, più gratificante per carriera, potere e remunerazione. Finirà simbolicamente una stagione iniziata il 9 agosto 2017 con la controversa – nella versione ufficiale – strage di San Marco in Lamis, un ciclo temporale di oltre 6 anni iscritto in una parabola di declino almeno trentennale, poi codificato nella sua “bolla” (sì, alla maniera di una lettera del Papa) mafiosa. Dall’addio imminente di Valiante in poi e un po’ prima a Foggia con la vittoria di Maria Aida Episcopo, la vicenda comunitaria lentamente prenderà un altro racconto. Siamo ai titoli di coda di una stagione, possediamo qualche verità di sistema in più, magari ci sfuggono ancora nomi e cognomi, contesti di potere più laterali, colleganze nascoste, abbrivi e compartimenti di memoria, ma, insomma, ci siamo. E dobbiamo renderne conto, come se fosse un testamento, un’eredità da lasciare alle generazioni a venire.
Il perimetro politico di Valiante
Ecco, leggerete qualcosa che ha il valore di un congedo.
Partiamo dalla fine, da quel 4 agosto di 20 mesi fa in cui il prefetto venuto dalla Bat prende ufficialmente possesso del palazzo di governo di Corso Garibaldi.
Il 2 settembre, tre settimane prima delle elezioni politiche, incontra l’ex ministro Francesco Boccia e l’assessore regionale Raffaele Piemontese sul tema della sicurezza e della lotta alla criminalità. E’ la prima iniziativa pubblica dal suo insediamento, non sono chiare le competenze dei due politici sul tema, ai giornalisti viene vietato qualsivoglia contatto. Boccia, che si ritaglierà successivamente il ruolo di consigliori di Elly Schlein, è il king maker dell’operazione Universo Salute (quella degli ex manicomi di Foggia, Bisceglie e Potenza) e disbriga da tempo, tra politica e amministrazioni compiacenti, il complicato traffico del business tributi in Capitanata. Famiglia, affetti e abbrivi di potere, soldi e consenso elettorale di Piemontese sono invece tutti dentro il gruppo Telesforo, socio al 60% di Universo Salute. Anche fuori quando serve, con il controllo della Fondazione de Piccolellis, una sorta di proprietà personale dell’entourage del dominus del Pd.
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Il 2 settembre Valiante traccia i confini, definisce il perimetro non solo politico del suo mandato. Peraltro già ai tempi della reggenza della prefettura di Bat era universalmente noto il suo sodalizio con l’azionista di maggioranza di Universo Salute, a giudicare dal ricco portfolio di testimonianze visive che il sito della società ostentava al colto e all’inclita.
La guerra dei mondi tra i due soci, che inizia non casualmente a fine 2018, precipita con l’interdittiva antimafia che colpisce Michele D’Alba il 23 febbraio 2023. Ne abbiamo scritto lungamente.
E’ un provvedimento incardinato su due episodi vecchi di 5 anni senza sviluppi investigativi o elementi istruttori nuovi, senza risultanze di ordine penale ad adiuvandum, senza nulla, episodi che tutti i prefetti prima di Valiante, applicando banale buonsenso, avrebbero ritenuto insufficienti per una misura cosi radicale. E’ un provvedimento che colpisce l‘unico imprenditore che aveva denunciato gli estorsori, a giudicare dalle evidenze delle inchieste Decima e Decimabis, a cui viene addirittura rimproverato “timidezza espositiva”. Mentre da quella denuncia di D’Alba, nel silenzio generale dei colleghi, parte tutto.
Due episodi, come l’Attacco dimostrerà, costruiti su indagini abborracciate, aggiustate all’occorrenza quando non immaginate, con tratti surreali tra pochade e situazionismo come nell’appostamento alla Rsa Il Sorriso. Indagini la cui prova regina – l’intercettazione in questura di febbraio 2018 – risulterà largamente manipolata nei suoi passaggi essenziali – ne siamo tuttora convinti, avendola ascoltata mille volte - attraverso giustapposizioni di periodi, alterazioni e sdoppiamenti di senso e lunghi intervalli sonori ritenuti incomprensibili per i quali non si provvederà mai a supplementi di ascolto e verifica. Per quella intercettazione esistono tre diverse trascrizioni, una diversa dall’altra, ce ne sarà una quarta se e quando finalmente si celebrerà un processo in aula di Tribunale.
C’era (?) una volta Sanna
Dietro la manipolazione dell’intercettazione l’Attacco incrocia per la prima volta la figura dell’ispettore Angelo Sanna.
L’ingresso del dirigente di polizia per noi cambia il mondo, modifica la prospettiva, ribalta radicalmente il “paradigma” per dirla con Thomas Kuhn. Certo, non approdiamo a “una scienza straordinaria” ma è come se sopite verità, brandelli di memoria, acquisizioni casuali, frammenti erranti di conoscenza trovassero una nuova sistemazione, un principio di ordine, indirizzandoci a quella “verità di sistema” di cui scrivevamo.
Cambia tutto. Il punto non diventa più solo la questione di come pezzi dello Stato – attraverso le maglie larghe della legislazione antimafia con l’interdittiva che colpisce D’Alba – siano finiti dentro la dialettica autoreferenziale tra poteri di una comunità, a servire un interesse contro un altro. La clamorosa ingiustizia nei confronti dell’imprenditore delle Tre Fiammelle va ben oltre i confini delle 18 pagine dell’interdittiva.
E’ accaduto anche altrove, il “codice dei cattivi” è stato il grimaldello per regolare conti tra portatori d’interessi e/o colletti bianchi. Le misure di prevenzione, “l’avanzata dell’eccezionalismo nello Stato di diritto” conferiscono un vantaggio competitivo a chi ha costruito un capitale di relazioni ambientali e sedimentato e strutturato un profilo istituzionale. E’ raccontato benissimo nella pagine de L’Inganno, il libro di Alessandro Barbano, e confermato dalle cronache degli ultimi anni.
Ma adesso cambia tutto. La scoperta è che Sanna&Co fanno queste cose da sempre.
Lui e i suoi sodali sono stati una sorta di Mr Wolf al plurale: “Risolvono problemi”.
Mette/Mettono su nel corso di 30 anni (“conosco i segreti degli ultimi 30 anni di Foggia”) una sorta di doppia questura, una sezione speciale che sta dentro gli interstizi del potere vischioso, le intersezioni tra area grigia e pace sociale, gli scambi tra paese reale e paese legale.
“Risolvono problemi” per committenti privati impicciati in qualche ambascia di giustizia, per procure pigre e infastidite da pruriti di legge&ordine, per varie utilità.
Le indagini si fanno, quando si fanno, si indirizzano, ingrossano e poi trapassano.
Sono, quando serve, facilitatori e spicciafaccende, gli italopontone della giustizia faidate del Tavoliere.
Così, dalla vicenda di D’Alba in poi si ricompone un mosaico dove ogni tessera è un capitolo di giustizia sommaria (e negata). Dalla macchinazione ordita ai danni dell’ex dirigente della mobile, Agostino de Paolis, che si fa pure un po’ di galera, alle trame contro il perito Michele Ciuffreda che fa saltare il lucroso business da 3 milioni l’anno delle truffe assicurative e rischia la vita (la rischia ancora). Dal caso Correra (due fratelli alle prese con l’eredità della madre, Abele diventa Caino grazie a un improbabile virata investigativa) all’ennesima controversa intercettazione a danno dell’ex consigliera comunale Liliana Iadarola (l’affaire della videosorveglianza, uno dei tre capisaldi della fragilissima relazione di scioglimento del Consiglio comunale di Foggia). Ci sono poi clienti speciali come Paolo Telesforo che assume la figlia di Sanna a giugno 2020. Ci sono anche altri clienti diversamente speciali per i quali mettersi sempre a disposizione: per esempio il noto boss della criminalità a cui prudono un po’ le mani e picchia l’incauto poliziotto della stradale in una trafficata arteria del centro storico molti molti anni fa. Come andò a finire? A tarallucci e vino (una storia che è diventata una sorta di leggenda metropolitana).
Voi direte: anche Sanna e i suoi accoliti erano dentro le linee guida del patto sociale che ha retto la quasi totalità delle comunità del mezzogiorno d’Italia negli ultimi 30-40. Vero, ci sono tutti dentro il partitone unico della spesa pubblica: ceto imprenditoriale, professioni liberali, vecchia piccola borghesia e lumpenproletariat. Vero, stavamo tutti bene. Vero, anche Sanna, a modo suo, partecipava di questa finale regolazione sociale.
Perché prendersela con lui allora se nessuno ha pagato per 30 anni di scelte e irresponsabilità generali?
Perché esagera, per eccesso di hybris. Perché il monopolio legittimo della violenza non può sconfinare nell’arbitrio e nella “logica di dominio” (Michel Maffesoli), se no torniamo a Hobbes. Perchè Sanna si sentiva uno dei sacerdoti di questa religione civile.
La questura è un pezzo del declino di questa comunità sia per la qualità ondivaga dei suoi investigatori (diciamolo una buona volta: era una criminalità di facinorosi che poteva essere facilmente annientata) sia per talune controverse relazioni con le aree della devianza. Vela 1 e Vela 2, le indagini “fatte da Bari” di Gianrico Carofiglio, per dirne una, erano figlie di questa diffidenza.
Perché “30 anni di segreti” esigono altri “30 anni di segreti” a giudicare dalla richiesta, poi bocciata, di proroga del servizio in questura per un ulteriore anno nonostante i 63 alle spalle e dalla esibita frequentazione della Caserma Miale dalla pensione in poi. Cioè oggi. Insomma, Sanna continua a darsi da fare, lui e l’amico ex commissario Ammirati non si capacitano di come siano uscite fuori queste storie vecchie di 30 anni. E affidano all’improbabile professionista di turno il compito di postare messaggi allusivi (e dissuasivi) a Procura e gangli di questura, peraltro maggioritaria, che non ne possono più delle tecniche degli ex Mr Wolf della grande provincia. Accade con un comunicato stampa a fine dicembre 2023.
“Non vi è stata una sola iniziativa della Procura nei confronti di quello che abbiamo definito un 'diffamatore seriale', definizione che ribadisco tranquillamente", spiega l’avvocato Michele Sodrio, che rappresenta e difende entrambi i poliziotti in quiescenza. Parla di chi vi scrive. “Ho motivo di credere – continua - che la Procura, per una sorta di eccesso di zelo, abbia disposto una verifica sull'autenticità della intercettazione ambientale riguardante D'Alba e alcuni suoi parenti. E ancora aggiunge il legale: “Come è noto il commissario Ammirati e il vice commissario Sanna sono andati recentemente in pensione, per raggiunti limiti di età, dopo decenni di servizio in quella che molto enfaticamente è stata definita la 'Squadra Stato'. Quella stessa squadra che sembra avere pesanti remore, nel perseguire chi infanga e offende due dei suoi più autorevoli servitori”.
Ecco perché abbiamo tirato fuori la storia dell’ispettore Sanna.
Bene farebbe il questore Rossi, prima di andare via, non solo a ricostruire 4 indagini emblematiche di questa stagione (sono su, abbiamo fornito i dettagli) ma anche eventualmente a rinvenire il nesso tra le indagini della questura parallela sulla criminalità organizzata e il range di clienti di taluni studi professionali. Così, per capire.
Questore Rossi, non le chiediamo di occuparsi del caso D’Alba, questione ben al di là del suo mandato foggiano ma, insomma, a capire qualcosa di più sì. E a staccare la spina da quel mondo.
La grande narrazione
Perché tutto lo Stato - come chi scrive - deve prendere congedo da questa stagione. E sarà complicatissimo. Perché per dimostrare di aver vinto, lo Stato ha imbastito negli ultimi 6/7 anni una fantastica, iperreale narrazione costruendo (provandoci almeno) un nuovo patto sociale: da un lato la verticalità della “Squadra Stato”, dall’altro l’asse con il vecchio notabilato e le (scarne) propaggini della società civile nate vissute e pasciute a pane e antimafia sociale.
Non è un’operazione di poco conto. Dentro ci sono almeno cinque, sei direttrici di intervento.
La super retorica della “Squadra Stato”, prima di tutto. Dal prefetto sino all’ultimo ufficiale è tutto un blandirsi, circuirsi, sostenersi. Immaginate che ciò accada in una terra segnata da quel trentennale declino, dall’assoluta inconsistenza del suo ceto decisore, da correnti carsiche di risentimento e disincanto sociale, da paesaggi mancanti (di età, generazioni, ceti), sì proprio Foggia e la sua Capitanata. Poi arriva la Squadra Stato e all’inizio Minniti ci manda pure i migliori (i bei tempi di Aquilio, Della Cioppa, Grassi). Beh, sembrerebbe la svolta, obliate responsabilità singole e collettive, tutto diventa colpa della mafia: il grande alibi. Così è stato lo Stato in questi anni: un fornitore di ultima istanza di farmaci oppiacei, per dimenticare il dolore, magari curarsi e alla fine avvelenarsi. Perché l’oppio “salva da tutto tranne che dall’oppio stesso”. Così, la narrazione della “Squadra Stato” è diventata un rifugio onirico, le ombre cinesi nella fumeria d’oppio di C’era una volta in America. Questi siamo noi oggi.
Ma ancora non bastava.
Lo storytelling calato dall’alto abbisognava di storie, volti, sofferenze foriere di felicità pubblica. Ecco perché lo Stato a un certo punto si è inventato il super magistrato esperto di mafia senza aver mai fatto un’inchiesta di mafia, l’imprenditore “coraggioso” oggetto sino a qualche giorno prima di indagini per evidenti “contiguità soggiacenti” (lui e il disgraziatissimo fratello) e l’altro imprenditore che fa l’antiracket dopo aver consumato credibilità e reputazione nella sua filiera di interessi di pertinenza. Tutti riverginati, tutti assurti al cielo, tutti eroi positivi (come ai tempi delle icone del realismo socialista). Una vera poetica di Stato.
Ma ancora non bastava.
La narrazione necessitava di essere veicolata e condivisa. Serviva il controllo e l’arruolamento di vecchi e nuovi media. Diretto e indiretto. Sui giornaloni di Bari non ci vuole niente, sono allineati e coperti da quando sono nati, lì Roberto Rossi, grande capo della direzione distrettuale antimafia, entra ed esce come vuole. Una vertiginosa sovraesposizione, avrà fatto più interviste lui nel corso degli ultimi 10 anni di Michele Emiliano, Antonio Decaro e vari ed eventuali Pd messi insieme. A regolare il traffico delle informazioni, a dettare piste e orizzonti del racconto mafiologico, senza smarcamenti, distinguo e/o ambizioni di altra verità non sono caporedattori e reporter improvvisati. Mentre il gioco sporco viene disbrigato da testate on line, vere e proprie buche delle lettere, foraggiate con gli scarti dei procedimenti di prevenzione. Con esiti paradossali come abbiamo visto a Foggia: gli stessi ufficiali di collegamento governavano l’informazione on line (cioè filtravano le fonti, scrivevano le veline, indirizzavano la linea editoriale) garantendo Stato e anti Stato al contempo.
Ma ancora non bastava.
A’ la guerre comme à la guerre. Quando il gioco si fa duro i duri iniziano a giocare, sono quelli che si sporcano le mani. Quante volte e come lo Stato è stato il convitato di pietra di competizioni elettorali, stagliandosi come suggeritore di alleanze e scrematore di classe dirigente? E’ stato facile perché la politica di suo già rantolava, limitandosi a pietire una qualche docilità e condiscendenza del prefetto di turno. La damnatio memoriae di Franco Metta a Cerignola, la candidata venuta dal nulla Giulia Fresca a Manfredonia, lo scioglimento dell’assise municipale di Foggia e infine la decisione di azzerare, sempre per mafia, l’esecutivo di belle speranze di Orta Nova sono la testimonianza drammatica di come sia stata calpestata e derisa la democrazia in questo pezzo di mezzogiorno. Tra strafalcioni istituzionali, corbellerie investigative e tremolanti teoremi. E non pago, in pieno delirio di onnipotenza, il potere di vita e di morte di un prefetto si è applicato, attraverso le maglie larghe delle interdittive antimafia, a imprese magari collegate ad articolazioni interne dello Stato. Vendetta di Stato contro altro Stato.
Zone Transition
Zone Transition
Intanto il prefetto Valiante è sempre lì, a corso Garibaldi, in attesa di essere trasferito. Continua con le sue interdittive (ha avviato un procedimento contro un altro big, un’altra medaglietta che si potrà appuntare) che hanno messo fuori gioco pezzi di economia, criminalizzato interi settori produttivi, ridotto a storia violenta ruggenti e disperati animal spirits. E, nel frattempo, la figlia dell’ex ispettore Sanna, quello che conosce “i segreti degli ultimi 30 anni di Foggia”, ha deciso di entrare in Polizia. Scommettiamo che….
Ci sarebbe da scrivere un libro. Con nomi e cognomi.