“Il tema della lotta alla criminalità mafiosa è quasi scomparso dalle agende e dai programmi della politica - denuncia
su Il Fatto Quotidiano Piernicola Silvis, scrittore ed ex Questore di Foggia -. Ormai ci conviviamo, questa è la verità. Non ci facciamo più caso. È una cosa gravissima, e la colpa è della politica. Questo non è il solito leit motiv complottistico secondo cui “i politici sono tutti mafiosi” o “il vero capo della mafia è il governo”. In realtà, la maggior parte dei politici italiani non ha nulla a che vedere con le consorterie mafiose, e meno che mai il governo può essere accusato di comandare Cosa nostra o la ‘ndrangheta. Ma fra politica e mafia un legame esiste, e affonda le radici nella storia: l’una non può vivere senza l’altra”.
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“Questa corrispondenza biunivoca nacque tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900. Le protoconsorterie mafiose erano profondamente presenti fra la gente, tanto da essere in grado di convincere il popolo a fare quello che gli si comandava. Fu questo il motivo per cui la politica cominciò a interessarsi alla mafia. Intuì che la forte presa dei picciotti sulla gente avrebbe potuto convogliare molti voti utili a fare eleggere politici “amici” locali e nazionali. E così fu. Già dalla fine dell’800, infatti, vari esponenti della politica furono eletti grazie ai voti mafiosi: il filo rosso che la lega alle mafie è cominciato così, e non si è ancora spezzato”. [...] [...]“Ma se la mafia prospera è spesso anche colpa delle dimenticanze dell’azione di governo. Quando lo Stato, dolosamente o per superficialità, viene meno a promesse e doveri che incidono sulla quotidianità della gente, allora si lascia campo libero all’azione della mafia, che riempie quei buchi con la propria potenza economica. È un meccanismo diffuso ma quasi invisibile. Per quale motivo la politica certe volte è talmente “distratta” da dimenticare di mantenere la parola data? Per confusione? Per disorganizzazione? Per quel pazzesco agglomerato di sigle partitiche che è il nostro Parlamento? Per la confusione di quel continuo turn-over di gente che va e viene da Camera e Senato? Per non scontentare gli elettori di questo o quel partito e avere mezzo punto in più nei sondaggi? Per favorire direttamente le organizzazioni mafiose?”. [...] [...]“Se volesse, però, la politica potrebbe fare molto per contrastare il fenomeno. Campagne di sensibilizzazione nelle scuole e nelle università. Pubblicità sociale sui media. Creare un organismo nazionale ramificato in tutti i capoluoghi di provincia che, prendendo il posto di DNA, DDA e DIA, inglobi pubblici ministeri, appartenenti alle forze dell’ordine, economisti, sociologi, psicologi. Un organismo che, in altri termini, sia in grado di assumere tutte le possibili iniziative giudiziarie, investigative, sociali, economiche e sociologiche per eliminare le associazioni mafiose. C’è la necessità di creare un ministero ad hoc? Lo si crei, allora”.
Zone Transition
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“La mafia non è solo cultura militare, è anche ricerca del consenso sociale, perciò non si combatte solo con le perquisizioni e i provvedimenti di cattura, ma anche ascoltando i cittadini ed educandoli al rispetto degli altri e delle leggi. Non basta mandare i migliori investigatori e magistrati nelle zone mafiose e poi scrollare le spalle e dire “Vedete quanto siamo stati bravi? Vi abbiamo mandato i migliori, ora che se la vedano loro”. È una guerra, e quando una guerra la si vuol vincere le cose devono essere fatte seriamente. Ma la domanda è: vogliamo davvero vincerla?”.
(Intervento completo su Il Fatto Quotidiano, qui)