Trovato con 16 piante di marijuana in casa, ma poi assolto a processo. A Foggia la "peculiare" sentenza

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Trovato in casa dalla polizia con 16 piante di marijuana, messo in stato di fermo convalidato dal gip con un brevissimo periodo di domiciliari e poi assolto a processo, su richiesta del pm, perché il fatto, ovvero l’ipotesi di coltivazione finalizzata allo spaccio (da 6 a 20 anni di carcere la pena prevista), non sussiste. È quanto accaduto a Foggia a un soggetto sotto i 40 anni, proprio di recente prosciolto dal Tribunale dauno dal capo d’accusa di cui era stato inizialmente imputato. Per approfondire il caso giudiziario per certi versi in controtendenza rispetto al panorama giurisprudenziale italiano in materia, l’Attacco ha contattato il legale che ha difeso l’imputato a processo, ovvero l’avvocato Costantino Nardella. “Le motivazioni della sentenza – esordisce – spiegano ciò che è accaduto e affermano che l'imputato andava assolto perché sebbene coltivasse in casa un numero ragguardevole di piante di marijuana è stato altresì accertato che questa coltivazione era finalizzata all’esclusivo uso personale. Si tratta di una persona – prosegue Nardella - che faceva uso di cannabis da 20 anni, ovvero sin da quando era adolescente, e che non aveva abbastanza soldi per comprarne la quantità di cui aveva bisogno, e dunque per averla si è industriato coltivandola a casa propria”.

Durante il dibattimento, tra le dichiarazioni rilasciate dall’imputato e quelle di alcuni testimoni che lo conoscevano da anni, verrà fuori che il soggetto, avendo fumato marijuana per così tanto tempo, era arrivato a soffrire di stati d’ansia, crisi depressive e problemi alimentari quando non riusciva ad assumere thc. “Non a caso – racconta sul punto l’avvocato - abbiamo prodotto in giudizio anche un certificato medico in cui, proprio per questi motivi, al mio assistito era stata prescritta da uno dei pochissimi dottori abilitati in materia l'assunzione di 1 grammo al giorno di cannabis”.

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Il medico in questione è il dottor Paolo Monaco (consulente e ospite di diversi convegni dell’Ornella Muti Hemp Club, un’associazione senza scopo di lucro che si dedica a fornire supporto ai malati nella ricerca della cannabis terapeutica prescritta e a metterli in contatto con i medici), che l’Attacco ha intervistato mesi fa proprio in ragione della sua attività di divulgazione scientifica condotta a livello nazionale nonché dell’attività prescrittiva nel campo che Monaco esercita a Foggia nel suo studio medico abilitato.

Ma c’è di più: a processo l’imputato riferirà e dimostrerà di essere da molto tempo un adepto dello Shivaismo, antichissima dottrina indiana che contempla tra le sue pratiche anche l’utilizzo di cannabis. Motivo per il quale assumeva diversi tipi e differenti qualità di cannabis anche a seconda del momento spirituale che di periodo in periodo viveva. “L’imputato ha riferito anche quest’aspetto al giudice – conferma Nardella –, anche se non mi sembra ciò sia stato più di tanto influente rispetto alle motivazioni della sentenza. Che è stata fondata, piuttosto, sul principio emesso dalla Corte di Cassazione, e cioè che se si tratta di una coltivazione di minime dimensioni, nonostante un certo numero di piante, perché effettuata in forma domestica e con tecniche rudimentali, e quindi si può dire che la quantità di prodotto ricavabile da quella produzione è utile solo per uso personale, e al contempo non c'è prova che l’imputato fosse dedito allo spaccio, cedendo o vendendo droga ad altri, a quel punto può essere provato l’uso personale ed è quello che ha verificato il giudice nel caso di specie”. 

Un’assoluzione in cui, in tutti i modi, il principio etico-religioso seguito dall’imputato deve aver influito ad allontanare da sé l’ipotesi di spaccio, perché la ricerca di un prodotto puro, totalmente naturale professata dallo Shivaismo portava il soggetto a non utilizzare alcun tipo di fertilizzanti sulle piante coltivate. “Ciò significa che la quantità di cannabis ricavabile da quelle piante era minima – spiega l’avvocato -. A differenza di chi coltiva per spacciare e pensa sempre a produrre il più possibile, a trarre dalla pianta il massimo rendimento”.

L’avvocato Nardella, però, nonostante la vittoria a processo e salvo fraintendimenti rispetto al casus giurisprudenziale in cui egli ha operato l’azione difensiva, tiene a precisare che “per la legge italiana a tutt’oggi resta il divieto di coltivare piante da cui è estraibile sostanza stupefacente, e dunque, da questo punto di vista, non esiste neppure un numero di piante limite sotto il quale è possibile coltivare in casa. La dirimente per l’assoluzione, nel nostro caso, è stato accertare che quella coltivazione fosse finalizzata esclusivamente all’uso personale. È bene capire – prosegue - che il reato di coltivazione di cannabis non stato è abrogato, tanto meno per 16 piante. Esiste un mondo giurisprudenziale estremamente variegato su questa materia, che porta a sentenze come questa ma anche a sentenze che condannano per 4 piante, perché magari ci sono elementi che portano a pensare allo spaccio. D’altro canto, va anche detto che maggiore è la quantità di piante coltivate e maggiore è la presunzione che si stiano coltivando apposta per lo spaccio, come testimonia una sentenza di Cassazione del 2021 che con 20 piante ha condannato l’imputato a diversi anni di carcere”.

Dopotutto, quindi, la normativa penale in materia è ancora piuttosto stringente, e se l’avvocato Nardella non fosse riuscito a dimostrare l’uso personale del suo assistito, a favore del soggetto accusato non sarebbe andata neppure la condizione ancora acerba delle 16 piante sequestrate, dal momento che non presentavano infiorescenze (in cui è contenuta la sostanza stupefacente). “Per contestare l’ipotesi di reato – spiega infatti Nardella - non conta quale sia il livello di maturazione della pianta: nel nostro caso si trattava di piante giovanissime, quindi senza principio attivo, ma questo non vuol dir niente per la legge. La coltivazione viene punita indipendentemente dal momento di maturazione della pianta, di cui viene punita la potenzialità produttiva”. 

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In definitiva, se si possa parlare di sentenza atipica oppure no, il legale commenta così: “L'unica atipicità risiede nel fatto che nella storia giurisprudenziale italiana è difficile trovare sentenze di assoluzione con un certo numero di piante, un numero non certo esiguo nel nostro caso. Ma ripeto, non è atipica se si dimostra che la finalità di una simile coltivazione risiede in ogni caso nell’uso personale”.

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