Nel buen retiro di Celle San Vito il direttore de l’Attacco Piero Paciello ha incontrato l’ex capo della Digos foggiana Michele Todisco. Ecco l’intervista.
Che città ha lasciato 15 anni fa e che città ha provato a capire negli anni successivi, lontano dal capoluogo?
Andai via da Foggia nel 2007. Già avvertivo una difficoltà, c’era una fase di decadenza e di non ottimale organizzazione dei servizi. Una città perennemente sporca, con una grande difficoltà amministrativa. Le conseguenze di questa situazione si ripercuotevano nella vita quotidiana. Negli anni successivi venivo spesso a Foggia, forse con occhi diversi la vedevo peggiorata non solo sul piano dell’organizzazione ma anche su quello culturale. Era meno accogliente e civile di prima. Negli anni ‘70 avevo notato una fase di evoluzione culturale della città, era all’avanguardia e crescente. Dagli anni ’90 in poi, invece, Foggia ha vissuto uno scivolamento, un arretramento che non è ancora terminato e che non so dove arriverà.
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Foggia è diventata città mafiosa negli ultimi anni o c’erano tutti i segnali e campanelli d’allarme da tempo? L’Attacco ha pubblicato settimane fa una riflessione dell’ex procuratore capo Massimo Lucianetti, che fu pm della Mani pulite foggiane con Tonino D’Amelio. Lucianetti ha detto: “Noi siamo in credito con lo Stato da 30 anni”. A gennaio ’93 lui, D’Amelio e Costanzo Cea lanciarono a Roma, in Commissione antimafia, un allarme sulla penetrazione mafiosa a Foggia. Lei che idea si è fatto di Foggia? Con lo scioglimento per mafia del 2021 siamo arrivati troppo tardi a capire la pervasività della criminalità organizzata negli organi di governo?
Il fenomeno tra fine anni ‘80 e anni ‘90 era già evidente, ma non così palese. C’era una criminalità violenta ma stracciona. Io nei primi anni Novanta guidai il commissariato di PS di Cerignola, conobbi quel tipo di criminalità che si stava evolvendo sul piano degli affari e dell’inserimento nei gangli amministrativi. Credo che anche a Foggia, dove diressi la Digos, cominciò allora questa fase di inserimento, con approcci prima e connivenze poi. Negli anni ’90 c’era sicuramente già questo tipo di fenomeno, poi esploso. Io non credo che Foggia sia una città mafiosa, per quanto ci siano connivenze con criminali violenti che cercano di investire denaro. Vedo ancora grandi spazi per evitare che controllino la città. Foggia ha una pianta ancora sana. La scarsa educazione e cultura, l’ignoranza diffusa nella cittadinanza, non aiutano. Serve una rinascita per impedire una maggior livello di mafiosità.
Lo scioglimento per mafia del consiglio comunale è stato un provvedimento giusto per lei?
Non conosco bene le cause dello scioglimento, ma certamente infiltrazioni e rapporti pericolosi c’erano. Se sono stati individuati elementi sufficienti è chiaro che sono stati valutati adeguatamente. Io fui meravigliato apprendendo la notizia dello scioglimento proprio perché, al di là di complicità e connivenze, non ho mai considerato Foggia una città mafiosa.
La commissione parlamentare antimafia, presieduta dal senatore ex M5S Nicola Morra, ha firmato mesi fa una relazione molto forte sui limiti degli scioglimenti per infiltrazioni mafiose. Per l’Attacco è un tema vero, come dimostrano i problemi irrisolti e le criticità trovati nella quasi totalità dei Comuni commissariati. E se lo strumento non funziona come dovrebbe allora pare di poter dire che sta alle comunità risollevarsi.
Ritengo ci sia concretamente lo spazio per riappropriarsi della città. La criminalità organizzata non può essere annientata ma può sicuramente essere arginata. E’ indispensabile, però, un lavoro collettivo da parte di tutta la comunità. Foggia deve risalire la china, non merita di essere una delle città più invivibili d’Italia.
Quanto pesa il sistema dei colletti bianchi in una città come Foggia? Quanto frena il cambiamento?
I colletti bianchi sono dappertutto, fanno i propri interessi sul piano economico. Anche loro possono partecipare fattivamente al cambiamento, non sono un ostacolo. Di sicuro fanno spesso i propri interessi ma se sanno guardare anche alla popolazione vanno sostenuti.
Quanto l’Unifg può dare a questo processo di cambiamento, nell’ambito della sua terza missione?
Io sono nato e cresciuto in una Foggia in cui l’Università ancora non esisteva. Speravamo che facesse fare un ulteriore passo alla città a livello culturale, cosa che in realtà non si è verificata. Non è stata capace di valorizzare le realtà locali, proprie di questa provincia. Non so perché sia mancato negli scorsi anni tale apporto a far risollevare Foggia. Mi è parsa un’azione sterile.
Uno dei temi all’ordine del giorno della prossima classe dirigente è senz’altro il dovere di rammendare e riammagliare sul piano urbanistico una città che è cresciuta con mille periferie, in maniera caotica, come detto dal progettista del PUG, il professor Karrer.
Sì, è così. C’è stato uno sviluppo disordinato di Foggia rispetto alle costruzioni edilizie, spesso in eccesso rispetto al fabbisogno. Foggia ha il record italiano quanto alle Gozzini. Si è costruito e basta, senza tener conto delle reali esigenze e di ciò che era necessario alla città.
E il potere forte era quello del mattone, molto collegato anche alle dinamiche criminali.
Connivente, visto che la criminalità organizzata cercava di infiltrarsi con investimenti di denaro e assunzioni di personale.
L’ordinanza Vela 2 del pm Carofiglio portò all’arresto dello stato maggiore dell’epoca di Confindustria e di un assessore regionale.
Colpì soprattutto il rapporto di familiarità con esponenti della criminalità locale, anche minori. L’idea che ci siamo fatti negli anni è che c’era un indirizzo che arrivava direttamente dal centro, dallo Stato: quello per cui anche con ambienti grigi o criminali bisognasse ragionare, tenerseli dentro per controllarli dentro. Tenerli dentro anche nel gioco economico.
Io non ho avuto questa sensazione. Non credo che il mondo imprenditoriale foggiano avesse questo tipo di rapporto con la criminalità. Questa si avvicinava a loro all’inizio per piccoli favori come lavori e assunzioni spesso fittizie, poi con una certa confidenza si andava anche oltre e gli investimenti aumentavano. La connivenza si è cementata man mano. Ma non c’era l’idea di inglobare la criminalità o ridurla entro certi termini per gestirla. Di sicuro le intercettazioni di Vela 2 lasciarono interdetti sia rispetto agli imprenditori che rispetto a certe responsabilità anche istituzionali per via di rapporti con criminali di spessore.
Negli anni ’70 da lei citati Foggia aveva una propria, indubbia centralità.
Era in espansione, lo si avvertiva che stava crescendo. In quegli anni frequentavo il liceo classico a Foggia. Credo che la città e la provincia, più in generale, avessero e abbiano grandi intelligenze. Il problema è che non restano qui, ma vanno in altre realtà. E questo non aiuta ad arrestare la discesa.
Secondo lei c’è solo una responsabilità del ceto politico?
Ha grandi responsabilità ma l’intero contesto avrebbe dovuto fare uno sforzo per far sì che Foggia prendesse un’altra strada.
Oggi oltre alla perdita di centralità c’è la sensazione di una disconnessione tra capoluogo e resto del territorio provinciale.
L’ho avvertita anche io questa separazione. Foggia era prima il punto di riferimento anche culturale, oggi ha perso questa funzione. Non ce l’ha più. L’ha persa sicuramente e per colpa di tutti, dall’Università al ceto politico e amministrativo, alla cittadinanza attiva che si è chiusa in se stessa.
Anche la Chiesa? Forse l’ultimo vescovo forte e carismatico è stato Casale.
Tutti hanno responsabilità, forse anche la Chiesa. Ho conosciuto solo Casale, una persona molto intelligente. Molte parrocchie lavorano in silenzio e con discrezione ma fanno tanto. Negli anni ’80 vissi l’esperienza dei Salesiani al Sacro Cuore con don Michele de Paolis, poi Emmaus. Credo serva ispirarsi a quel tipo di azione.
Lei fu capo della Digos a Foggia in un momento molto particolare, nel passaggio tra Prima e Seconda Repubblica. Rispetto ad allora, quanto è cambiata la politica?
Gli anni ’90 credo siano stati gli ultimi di una politica buona. Poi c’è stata lo scivolamento, i partiti sono venuti meno. Non c’erano formazione né esperienza amministrativa. Il livello è scemato allora a livello nazionale. L’ignoranza inabissa tutto.
La crisi della città non è anche la crisi del suo ceto medio, compreso quello riflessivo?
Il ceto medio è pian piano anch’esso scivolato culturalmente verso il basso, si è isolato e non ha fatto grandi sforzi lasciando il governo della città - ma vale anche per l’Italia - a personalità che si rivolgevano alle fasce meno acculturate, le quali dovevano restare tali.
Fasce che però sono state sempre più determinanti nel selezionare, ad esempio, il Sindaco della città.
Accanto alla crisi dei partiti si è visto l’avanzare di personaggi autoreferenziali diventati amministratori senza averne né le conoscenze né le capacità. E’ cresciuta così una classe politica non all’altezza della situazione, col risultato che le amministrazioni – non solo quelle locali – ne hanno risentito.
Nel passaggio tra Prima e Seconda Repubblica si registrarono un azzeramento nei partiti, i sindaci eletti direttamente dal popolo, la retorica della società civile. La sensazione era quella di una classe dirigente nuova. Oggi tanti riferimenti sono venuti meno a livello istituzionale, ad eccezione forse dei soli sindaci. Con chi ragionare?
Anche io speravo che il cambiamento potesse essere positivo allora. In realtà, dopo brevi lampi, siamo tornati all’oscurità precedente. Molti non si sono rivelati all’altezza della situazione, troppe ambizioni personali anziché partitiche e ideologiche. Ciò non ha favorito lo sviluppo delle comunità. Tante energie sono andate perse, negli anni ’90 ricordo uno svuotamento evidente anche morale. Fu un passaggio fallimentare.
Dei due mandati di Paolo Agostinacchio a Foggia, l’era della destra a Foggia, cosa ricorda?
Vorrei non rispondere a questa domanda. Mi limito a dire che ci fu una grande differenza tra il primo e il secondo mandato.
Rimpiange qualcosa rispetto agli anni da capo della Digos a Foggia? O pensa di aver fatto tutto quello che poteva fare?
Ritengo di aver fatto tutto il possibile. Ma non ho potuto fare tutto ciò che avrei voluto.
Quanto è vischiosa Foggia?
E’ una città difficile. Ebbi grandi difficoltà, mi sentii in alcuni momenti molto isolato. Quindici anni fa feci la scelta di allontanarmi da Foggia, perché non ero più in grado di fare quel che sentivo di dover fare. Ebbi la sensazione che il mio ruolo fosse esaurito. Volli cambiare città.
Lo rifarebbe?
Non lo so, fu una decisione complicata. Sentivo un rigetto nei miei confronti da parte della città, non potevo dare più niente in Questura. Oggi sono appena andato in pensione, devo affrontare il passaggio dalla vita attiva alla vacanza. Mi sento ancora attivo, dopo 38 anni di servizio. Ma la Polizia è un ambiente che conosco da 60 anni, ci lavorava anche mio padre. E’ un lavoro totalizzante, che ti assorbe 24 ore su 24. Il passaggio non sarà facile.
Zone Transition
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Ritiene che in questi anni l’operato della Procura foggiana sia stato adeguato alle sfide che la città poneva?
Ha lavorato molto, ha svolto belle indagini. Parlo sia per Foggia che per la Distrettuale antimafia barese. Indagini difficili. Inizialmente ci fu una scarsa collaborazione tra loro, il distacco non aiutava. Poi le cose sono cambiate con una sinergia che ha consentito di ridurre i tempi e di raggiungere risultati.