“Nessuna sentenza, di qualunque tenore, potrà restituire il soffio della vita a Roberta o anche attenuare lo strazio dei genitori e del fratello però nessuna sentenza deve ferire la memoria della ragazza”. Sono state queste le parole dell’avvocato sanseverese Guido De Rossi, difensore del padre di Roberta Perillo (parti civili difese dal collegio formato anche dal figlio Roberto De Rossi e da Consiglia Sponsano, ndr), al termine della requisitoria fatta qualche giorno fa, l’ultima prima della sentenza che potrebbe arrivare già domani.
La corte infatti ha rinviato il processo a domani 15 aprile per eventuali repliche, interventi del pubblico ministero (pm) e quindi eventuali rilievi degli altri avvocati, e non è escluso che in quella data la Corte di Assise possa pronunciarsi definitivamente con una sentenza.
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“Diversamente da quello che si ritiene, in questo processo – come ha giustamente evidenziato anche il pm Rosa Pensa – non ci si può occupare esclusivamente della problematica, fondamentale comunque, relativa alla capacità di intendere e di volere dell’imputato – ha affermato a l’Attacco Guido De Rossi –, ma occorre ricostruire analiticamente quello che è accaduto in quel drammatico pomeriggio di luglio di tre anni fa soprattutto per valutare adeguatamente l’efferatezza della condotta omicida di Francesco D'Angelo”.
Quest’ultimo, come si sa, è l’assassino reo confesso. “Ho descritto, dolorosamente perché alle mie spalle vi erano i familiari di Roberta Perillo, quello che è accaduto – ha aggiunto De Rossi –: la povera ragazza è stata strangolata, poi trascinata verso la vasca è messa lì. Mi sono permesso di dire che D’Angelo non si è limitato a uccidere Roberta, ma ha voluto straziarla letteralmente. Questo, a mio parere, non può non essere rilevato al fine anche della determinazione della pena perché ho osservato che alla luce della crudeltà dimostrata, la richiesta del pubblico ministero – 21 anni – è inadeguata. Perché 21 anni per l’omicidio volontario è il minimo della pena prevista, salvo il gioco delle attenuanti e delle aggravanti”. “Ho aggiunto che se si dovesse riconoscere la seminfermità, fra qualche anno costui sarà il libero. C’è il rischio di ritrovarsi di fronte a un episodio simile – ha evidenziato l’avvocato –, perché aveva già dimostrato, in passato, di essere ambiguo con un’altra fidanzata”.
Dopo queste premesse De Rossi si è focalizzato sull’elemento della capacità di intendere e di volere dell’imputato. “Ho ripreso la pregevole relazione e l’esame del professor Alessandro Meluzzi evidenziando che tutti i testi delle parti civili e del pubblico ministero hanno sottolineato che D'Angelo si è sempre dimostrato assolutamente normale, gioviale e presente. D'Angelo ha ricoperto ruoli importanti all'interno di Art Village incompatibili con il disturbo della personalità ipotizzata dal dottor Roberto Catanesi, consulente del pm. Soprattutto ha dimostrato una impressionante lucidità e freddezza immediatamente dopo il fatto. Si è recato dal padre, quest’ultimo lo ha accompagnato per costituirsi in Questura ricostruendo fotogramma per fotogramma, con una lucidità sconcertante, quello che era accaduto poco prima. Riteniamo che non sia neanche astrattamente ipotizzabile la seminfermità prospettata dal consulente del pm”.
Su quali basi si fonda la relazione del professor Meluzzi (consulente delle parti civili, ndr)? “Ha fatto comprendere che non ci sono assolutamente elementi per diagnosticare il disturbo di personalità – ha dichiarato De Rossi – perché non sono stati prodotti certificati di alcun genere di strutture pubbliche e ha sottolineato che questo tipo di disturbo non è transitorio ma permanente. Per cui dovrebbero essere presenti certificazioni sin dall’età infantile e non ve ne sono. Lo stesso Meluzzi ha sottolineato che ricopriva un ruolo importante e che ha dimostrato freddezza e lucidità immediatamente dopo l'omicidio. Non c'è un certificato, un riscontro: una compagna di scuola dalle elementari fino al liceo ha ricordato che era una persona assolutamente attenta, normale, diligente, che non aveva mai subito atti di bullismo cui ha fatto riferimento il padre. Meluzzi ha detto che una diagnosi di disturbo della personalità non può basarsi su un’anamnesi esclusivamente familiare, quindi su dichiarazioni dello stesso ragazzo o del padre e ha detto, testuali parole, questa è ‘fantapsichiatria’”.
D’Angelo ha mai manifestato segni di pentimento? L’imputato ha avvertito il disvalore perché al padre ha detto che era successa ‘una cosa gravissima’, ha compreso quanto accaduto però io non ho traccia di nessuna manifestazione o espressione di pentimento”.
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Nella stessa giornata c’è stata la requisitoria della difesa che ha sposato la tesi della parziale incapacità di intendere e di volere, facendo proprie le conclusioni del professor Catanesi. Quindi, ha chiesto come attenuante la seminfermità e inoltre, come attenuanti generiche, quella della piena confessione resa immediatamente in Questura e al pubblico ministero subito dopo l’omicidio.