Interdittive, il Tar boccia Valiante e l’idea di un “diritto della paura”. Siamo a un cambio di stagione

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Nelle scorse settimane il Tar di Puglia ha emesso una importante sentenza in materia di interdittive antimafia annullando sia un provvedimento della locale Prefettura emesso nel novembre 2023 nei confronti di un’impresa attiva nel settore edilizio sia un successivo provvedimento di conferma emesso nel marzo 2024. Dalla lettura della sentenza si apprende che gli addebiti formulati nel provvedimento interdittivo erano raggruppabili in tre categorie, ovviamente tenendo ben presente che “il fatto” di cui si doveva discutere - e solo quello - era se quella attività imprenditoriale fosse stata condizionata dalla mafia oppure no. Punto. Il primo gruppo di addebiti riguardava: a) un precedente processo penale per bancarotta a carico dell’amministratore della società; b) un arresto dello stesso amministratore per concussione (in concorso con altri pubblici amministratori) ai danni di un altro imprenditore per costringerlo a stipulare un contratto di locazione di un immobile; c) una denuncia per truffa di sua sorella che aveva ricevuto via telefonino la soluzione del compito scritto per una prova scritta all’ esame di matematica. 

Premesso che ognuno di quei processi penali si era poi concluso o con l’assoluzione o addirittura con l’ancor più radicale meccanismo dell’archiviazione preventiva del procedimento, sta il fatto ancor più rilevante che non sarebbe stato configurabile neppure in astratto un collegamento fra quelle tipologie di reati e “la mafia”, cioè l’oggetto specifico - e unico - del contrasto cui dovrebbe tendere appunto una interdittiva antimafia irrogata a una impresa. 
Ciò deriva dalla tendenza a confondere scorrettamente con la “mafia” qualunque condotta di reato in modo da sovrapporre strumentalmente il concetto di mafiosità a ogni illegalità in genere - scorrettezza sulla quale ci siamo espressi un numero ormai incalcolabile di volte proprio su questo giornale - e quando nel caso specifico fossero poi intervenute anche le assoluzioni nella sede penale propria, diviene apertamente pretestuoso l’aver insistito nel creare un collegamento fra ipotesi di reato addirittura smentite e la “mafia”, come correttamente ha stigmatizzato il TAR nella propria sentenza di annullamento del provvedimento interdittivo.

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Un secondo addebito consisteva nell’evidenziare che una persona della famiglia del titolare della impresa (la figlia, la sorella?) aveva un rapporto di convivenza con il figlio di un malavitoso di spicco, pur precisando che quest’ultimo di suo era incensurato e che non erano risultate frequentazioni vere e proprie né da parte di costui con gli ambienti imprenditoriali della società né, viceversa, frequentazioni fra il titolare della impresa e la famiglia del giovane “figlio di”. Su questo punto dobbiamo dire che ormai ci sentiamo disgustati da certi ragionamenti vagamente paranoidi (ma che tuttavia sono ormai tristemente ripetuti nei provvedimenti prevenzionali) in base ai quali la “colpa d’autore” di essere un delinquente si trasmetterebbe per contagio prima in via discendente dal padre malavitoso al figlio incolpevole, poi da quest’ultimo si trasferirebbe per via orizzontale a una sua compagna ancor meno colpevole di quello e, tramite quest’ ultima, risalirebbe come un reflusso idraulico ascensionale a infettare in risalita anche il padre della ragazza ovviamente il più incolpevole di tutti, per poi infine colliquare fuori per via orizzontale e infettare anche la impresa del padre (cioè dipendenti, fornitori, creditori, altre imprese in rapporti commerciali, i clienti committenti della società, e così via) .

Se l’assurda gravità di questo meccanismo pandemico sulla circolazione infettiva della colpa ce lo rende lecito, potremmo dire che una scopata fra certi Giuliette e Romei può fare più danni di un omicidio: nel senso che un omicidio condanna al carcere un solo sciagurato, mentre una scopata maldestra può inguaiare decine di persone incolpevoli se la notizia finisse sulla scrivania di certi prefetti. Prendiamola sull’ironico, ma la realtà pare essere divenuta proprio questa. Tra l’altro, ci sia consentita una riflessione su un piano del tutto diverso. Premesso che il giovanotto e la ragazza dal canto loro sono due incensurati sicchè nelle loro frequentazioni sentimentali possono fare liberamente qual che gli pare - poiché non è stata ricostituita, o non ancora, la Squadra del Buoncostume per operare come la polizia della morale - ciò premesso, qualcuno vorrà adesso spiegare ai due Giulietta e Romeo locali che il loro rapporto è stato squadernato in piazza come intrinsecamente “mafioso” ci azzecca o non ci azzecca? Ecco, noi diciamo queste cose perché finalmente in certi ambienti ci si renda conto di quanto danno si fa alle persone a sparare in pubblico fatti privati anche quando questi fossero già in partenza irrilevanti a effettivi fini di giustizia: dopo di che, ciascuno si faccia gli esami di coscienza che ritenesse.

Un terzo addebito riguardava il sospetto che la impresa avesse ottenuto alcuni affidamenti diretti nel periodo in cui era amministrata da un certo soggetto, il quale peraltro è oscurato da un “omissis” nella sentenza sicché non si comprende neppure se tali affidamenti avessero comunque a che vedere con la “mafia”. A ogni buon conto, poiché la cosa neppure è vera in punto di fatto (“L’assunto risulta smentito... detti affidamenti facevano seguito a procedure di evidenza pubblica cui la società ritualmente partecipava”), finisce per essere particolarmente sorprendente l’errore in cui è incappata la Prefettura su tale punto, il quale sarebbe stato l’unico a poter essere definito un “fatto materiale” in termini oggettivi e diversi da semplici supposizioni accusatorie.

Ma venendo a una considerazione più generale, a nostro avviso la decisione del TAR è importante per il principio, che viene ora messo mero su bianco a ogni futura memoria su queste tematiche, e cioè che i presupposti di fatto per irrogare tale gravissimo provvedimento non possono consistere in semplici valutazioni ipotetiche accusatorie:  “Deve evitarsi l’adozione di provvedimenti aprioristicamente diretti all’applicazione dell’interdittiva prefettizia in assenza di un forte quadro indiziario che denoti la realistica probabilità materiale del rischio infiltrativo, e non la mera possibilità o la semplice eventualità che esso si verifichi... Sicchè il pericolo dell’infiltrazione mafiosa, quale emerge dalla legislazione antimafia, non può sostanziarsi in un sospetto della pubblica amministrazione o in una vaga intuizione del giudice, che consegnerebbe questo istituto... a un ‘diritto della paura’”.

Soffermiamoci un attimo su questa forte affermazione di principio e collochiamola nel quadro d’ assieme del nostro ordinamento civile, nel quale lo stesso meccanismo legale delle interdittive antimafia deve comunque essero inserito e coordinato ideologicamente, né può avere pretesa di essere un “qualcos’altro” con regole estranee al resto del sistema in nome di una cosa definita “emergenza” che tuttavia dura da oltre un secolo (la mafia), fino a essersi trasformato nella prassi applicativa appunto in un grottesco “diritto della paura” riservato agli imprenditori.

Nel tema delle interdittive antimafia il punto cruciale di svolta fra una valutazione affidata ai puri sospetti e una valutazione aderente ai dati concreti è rappresentata dalla idoneità ad ancorarsi a “fatti materiali” ogni volta che si formulano affermazioni accusatorie: da questo non si scappa - e non si deve mai consentire che si scappi - sia che si tratti di una decisione da assumere in un processo penale in senso stretto sia che si tratti di un procedimento di prevenzione di polizia. Infatti, sebbene diverso sia il grado di concludenza probatoria richiesto a un “fatto” in un processo penale (la reità va affermata solo quando essa fosse “certa al di là di ogni ragionevole dubbio”) piuttosto che in una misura di prevenzione quale appunto è una interdittiva antimafia alla impresa (la sola probabilità, peraltro affidata a indizi gravi), il punto di partenza resta in entrambi gli scenari valutativi la esistenza di “fatti” in senso materiale, i quali sono concettualmente entità obiettive diverse dalle sole supposizioni possibilistiche.

Orbene, è bene sottolinearlo per chi non l’avesse ben chiaro: il solo “fatto” di cui ogni volta si deve discutere quando si intende applicare una interdittiva antimafia a una impresa è esclusivamente il collegamento/condizionamento fra soggetti mafiosi e impresa, e non altro. Per cui rappresenterebbe uno sviamento prospettico, peraltro pericolosissimo nei suoi effetti fumogeni, citare altri “fatti” che potrebbero essere anche veri nella loro materialità oggettiva (ad esempio un certo rapporto parentale, un certo precedente penale, un certo comportamento inappropriato, e così via) ma che ancora non riuscissero a dimostrare il solo “fatto” che interesserebbe ai fini della interdittiva, e cioè appunto un collegamento/condizionamento esercitato da quegli altri “fatti” che pure hanno ruotato attorno a quella impresa .

Zone Transition

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Su questo punto decisivo non debbono essere ammesse incertezze, altrimenti si sarebbe fuori dal sistema generale e si entrerebbe nel diverso sistema del già citato “diritto della paura” cucito addosso a una singola persona o a una singola impresa prescindendo dal solo “fatto materiale” prescritto dalla legge nella forma del collegamento/condizionamento a opera di poteri criminali mafiosi. 

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