Capitanata, 48mila laureati andati via in 10 anni. Donne, solo 1 su 3 è occupata

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L’economia della Capitanata durante gli ultimi dieci anni ha perso 1,2 miliardi di euro di PIL, tutto nel settore privato (manifatturiero, agricolo, commercio). L’effetto più devastante l’ha subito il sistema produttivo riducendosi di oltre il 30%. Il PIL per abitante è sceso al 55%, pari a 16mila euro, rispetto a quello del centro-nord pari a 30mila euro, ciò ha determinato un calo vistoso degli investimenti, dei consumi e dei livelli occupazionali.

Lo scarso dinamismo dell’economia di Capitanata rispecchia l’estrema fragilità del suo sistema produttivo caratterizzato da una frammentazione di piccole imprese (oltre 67mila, un’impresa in media ogni 9 abitanti circa), da una limitata apertura ai mercati internazionali e da una specializzazione orientata ai servizi a basso contenuto di conoscenza.

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Un dato interessante da evidenziare è che, a fronte di un calo del PIL così vistoso, il saldo tra nuove imprese e cessate è positivo. Ciò è dovuto al fatto che, non avendo possibilità di un lavoro dipendente stabile, si aprono attività economiche spesso senza alcuna prospettiva.

La dimensione media delle imprese è di 4 addetti e ciò determina bassi livelli di produttività e impiego di lavoratori a bassa dotazione di conoscenza. Nel 2019 la quota di dipendenti nella manifattura ad alta tecnologia o nei servizi a elevata intensità di conoscenza era solo del 5,5%. La stragrande maggioranza delle imprese è in forte ritardo nell’adozione delle tecnologie digitali, assenza totale di ricerca e sviluppo, per niente manageriali e tutte familiare. Tutto questo crea difficoltà nel creare lavoro e costituisce fonte di disuguaglianza tra chi il lavoro in qualche modo lo conserva e chi lo cerca disperatamente.

Alla vigilia della pandemia da Covid-19 solo il 40,1% della popolazione in età da lavoro risultava occupata contro il 66,6% del centro-nord. Il dato post pandemico è sostanzialmente rimasto invariato, poiché gran parte del lavoro dipendente è pubblico e le imprese sono poco o per nulla esposte ai mercati internazionali.

Dal 1980 al 2020 il tasso di occupazione è sceso dal 50% al 40,1%, la doppia recessione del 2008 e del 2013 ha inciso sia per la componente maschile sia per quella femminile.
Il dato più insopportabile e inaccettabile è il tasso di occupazione femminile pari al 29,1%: su dieci donne solo tre hanno un lavoro per lo più precario e sfruttato.

Negli ultimi 40 anni nella provincia di Foggia la condizione lavorativa delle donne è migliorata di poco, con un tasso di occupazione passato dal 25,1% del 1980 al 29,8% del 2020, per lo più occupate nei servizi alla persona. Il dato regionale è pari al 32,8%, quello nazionale è del 51,2%, l’area Euro presenta un dato pari al 62,4%.

In una società basata sulla conoscenza la qualità media del lavoro è inferiore alla media nazionale, gran parte del lavoro è pubblico e forte risulta l’incidenza di impiego nel settore alloggi, ristorazione, commercio, agricoltura e servizi alla persona. Le retribuzioni medie risultano inferiori alla media nazionale di oltre il 28%. Il 50% delle famiglie non riesce ad affrontare spese straordinarie che superano i 450 euro.

Il dato sconcertante è la difficolta estrema a trovare un lavoro regolare e di buona qualità. Nell’ultimo decennio sono progressivamente aumentati i flussi migratori in uscita. Hanno abbandonato il territorio di Capitanata oltre 160mila persone, per lo più con destinazione centro-nord e per il 30% sono laureati. La probabilità che un laureato trovi lavoro in questa terra rispetto alla propria formazione era una su dieci nel periodo antecedente pandemia e guerra in Ucraina.

Tutto ciò crea difficoltà ulteriore nell’accumulazione di capitale umano. In altre parole, negli ultimi dieci anni sono andati via 48mila laureati, un capitale investito in istruzione stimato in 45 miliardi di euro i cui ritorni saranno a tutto vantaggio delle aree del centro, del nord Italia e di Paesi esteri.

Un territorio senza lavoro è senza dignità. L’aspetto più sconvolgente è che di fronte a questi numeri nessuna organizzazione o istituzione ha preso consapevolezza del suicidio collettivo che ci aspetta. Ho la sensazione che questa provincia da tempo soffra di una mancanza di pensiero, nonostante la presenza di una Università che, a vedere i numeri, ha contribuito poco o nulla alla crescita e allo sviluppo economico del territorio.

Ogni anno perdiamo capitale umano pari ad una città e nessuno ne parla. Paradossalmente, ad attenuare la gravità della situazione sono stati gli immigrati che hanno salvato alcuni settori economici quali l’agricoltura, il turismo, la ristorazione e i servizi alla persona, oltre ad aver aperto oltre 2mila attività economiche e commerciali. In questi numeri non ci sono le migliaia di studenti universitari che hanno scelto la loro formazione in altri atenei del centro e nord Italia e che non faranno più ritorno, i più preparati e per lo più provenienti da famiglie più abbienti.

La Capitanata è diventata una terra triste, invecchiata, rassegnata, ripiegata su se stessa, seduta in attesa di non si sa che. Chi può fugge, chi non può cerca di sopravvivere. Sono stati persi la miglior gioventù e il capitale umano necessario allo sviluppo. Sono rimasti gli anziani, i dipendenti pubblici, i beneficiari di rendite parassitarie e improduttive, un esercito di avvocati (2.500) e commercialisti (oltre 1.500) senza clienti e prospettive. C’è un avvocato ogni 250 abitanti e un commercialista ogni 350 abitanti. Pochi i manager, gli ingegneri informatici, gli esperti di marketing e di finanza, i tecnici della trasformazione digitale e ambientale.

Colpevoli di questo disastro la scarsa qualità istituzionale pubblica e privata, imprenditoriale e delle professioni, come pure politiche pubbliche inefficaci e inefficienti, che hanno avuto effetti collaterali tutti a favore di fenomeni corruttivi, criminali e parassitari.

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Il PNRR potrebbe essere l’occasione storica e irripetibile di un cambio di marcia se saremo in grado di progettare il futuro. Le avvisaglie non sono delle migliori.
(Nicola di Bari - l’Attacco)

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