“Ho fatto una cosa così. Proprio semplice”. Entra in cucina. Resta tre minuti d’orologio ed esce reggendo sul braccio tre piatti. Istrionico e vulcanico, teatrale e passionale. Gegè nazionale è una figura non semplice da raccontare, perché talmente sfaccettata che sfugge alla definizione. Chef che apre un ristorante senza saper cucinare. Visceralmente attaccato a una città che non lo riconosce. Folle e credente. “D’estate è così che mangio. Stracciatella. Menta. Pomodori”. Un piatto che esprime giovinezza e freschezza e l’idea che non è il tempo a invecchiare le persone. “E’ stupendo saper invecchiare. Tenersi giovani dentro”.
E lui, Gegè Mangano, nel suo regno nel cuore di Monte Sant’Angelo, ha riscoperto il piacere del tempo che passa. Il confronto con il Gegè giovane c’è, ma lui non ci pensa a lungo a dire che preferisce questa versione, più matura e consapevole. “Preferisco quello di oggi che ha capito tante cose. Quello di prima, era più ingenuo, più schietto, oggi dico che dentro è rimasto il giocherellone di sempre ma ha una marcia in più; quella della maturità”. E se pensate che maturità voglia dire che vi troverete di fronte un uomo più ponderato e riflessivo, vi sbagliate. Al taglio del nastro dei suoi 25 anni di carriera, lui ci arriva più folle di prima. Perché oggi, dalla sua ha la capacità di gestirle, le follie, oltre che di farle. La sua più grande è in cucina. E si trova in quella che lui stesso definisce una semplicità complessa. “Semplicità non vuol dire facile, banale. Vuol dire capacità di mettere insieme tre elementi semplici che si legano alla perfezione e che ti danno l’idea del bello”. E il bello è davanti ai nostri occhi. Due pomodorini, una nuvola di stracciatella, olio e menta. La sua cucina negli anni è mutata, passando dall’idea che solo ingredienti importanti potessero far raggiungere un livello alto, a una versione più nuova. Più pulita, che tiene dentro le sue corde la volontà di dare valore in più al territorio e una ricercatezza d’accostamenti che si fa predominante. Gegè in questi anni è passato da un troccolo ai funghi porcini, rucola e noci, un piatto quasi baronale, ricco, pomposo, ad un raviolo farcito, con caciocavallo podolico e bottarga di muggine di Lesina e un filo d’olio. Gli inizi venticinque anni fa proprio a luglio, e il ricordo di quella scommessa: “Ci davano per folli quando abbiamo aperto qui, nel centro storico, dove neanche con la macchina si arriva”.
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Eppure sono passati venticinque anni. “Sì, sono 25 anni che sono in cucina”, dice ricordando gli anni precedenti, quelli che lo hanno formato e che gli hanno dato modo di imparare. “Cucinavo? No, neanche per me stesso”, dice divertito, ma serio. “Ecco perché mi hanno chiamato in Bocconi, per capire questo. Quale è stata la strategia di mercato che ho creato per diventare quello che sono senza aver mai cucinato. Io venivo dalla sala non dalla cucina”. Cucinare il primo pomodoro? Glielo lo fece sua moglie. Lui, mentre imparava a cucinare, mandava lettere a professionisti, per invitarli al suo ristorante. E quando i clienti lo chiamavano per prenotare, diceva che il locale era già pieno. “Facevo nascere la curiosità. E prendevo tempo. Mi sono creato una fascia di mercato, grazie a una lunga attesa”. Ha tenuto chiuso per sei mesi. E mentre arrivavano le bollette, le rate del mutuo, le preoccupazioni, lui si esercitava e quando finalmente si sente quasi pronto ad aprire, mette in atto la seconda parte del piano. “Prendevo le prenotazioni per il secondo turno, dicevo che ero pieno, ma non era vero, quindi sporcavo i tavoli e lasciavo solo un tavolo apparecchiato. E quando veniva a secondo turno il cliente, gli dicevo che cosa era rimasto. Ed erano i pochi piatti che sapevo fare”. E così orecchiette al pomodoro e cacio ricotta, salsicce alla brace o verdure alla griglia diventava il meglio che si potesse mangiare. Senza fronzoli. Molto rustico, rappresentava quello che lo chef era in quel momento. Mentre si esercitava, scatta la molla della passione.
“In 25 anni ho scritto una storia fatta di cucina passione e amore. Tutte le volte che creo un piatto, lo faccio come piace a me, perché credo che se ti rappresenta ci metti passione, metti te stesso, e questo passa. Io trovo sempre che stare in cucina non deve essere un peso, ma un gioco. Se giochi riesci a creare, come quando sei bambino”. Il cliente lo va a cercare, lo sente vicino e per questo dice che è passionale. “Sono anche testardo. Non avevo un piano b. Ci ho sempre creduto, ma senza l’idea di dover raggiungere titoli. l lavoro della cucina mi ha dato tante soddisfazioni, che sinceramente non mi aspettavo”. Uno dei primi, da queste parti, ad essere sulle guide. Uno dei primi a parlare di olio, metteva la bottiglia a tavola, quando gli altri mettevano ancora l’oliera. Uno dei primi del Gargano a fare un libro con Luigi Veronelli. Perché, di qua, a dimostrare che la scommessa lo chef l’ha vinta, c’è stato il fatto che sono passati i più grandi critici, da Edoardo Raspelli, a Enzo Vizzari fino a Veronelli. Sentivano parlare, girava la voce che c’era questo Gegè che comunicava con i prodotti tipici. E poi l’intesa con Gianni Mura di Repubblica. “A Gianni Mura mandai una lettera e lui è venuto dopo 20 anni con quella lettera in mano per conoscermi. Gli ho scritto che mi sarebbe piaciuto avere una sua visita. Io lo seguivo perché lui era appassionato di sport e ristoranti, di ciclismo.
Non mi ha mai risposto, ma poi dopo tutti quegli anni è arrivato”. E Mura scrisse che questo chef meritava la stella tanto per cominciare per la simpatia. Invece della stella, è arrivata la chiamata dalla Bocconi. “Normale, succede anche questo. Mi sento molto ambasciatore della Puglia, che definisco la California dell’Europa”.
Accanto a lui in questo percorso, anzi, insieme a lui, Anna Totaro. “Io e lei siamo cresciuti insieme. Da piccoli venivamo qui, ci sbaciucchiavamo e io le dicevo vedi che qui apriremo un ristorante. Lei non mi credeva. E Quando le andò a chiedere per la licenza non ci credevano neanche gli altri”. Monte Sant’Angelo per lui è tutto. Mare, bosco, religione. Anche nella sua cucina c’è tutto questo. Gli chiediamo cosa c’è di sacro in questa sua cucina. “Di sacro c’è poco…”, sospira divertito, da vero protagonista. Protagonista. Così fu definito dal giornale che lo mise in copertina. “Erano i tempi delle poche prime guide, in cui non si parlava molto di critica gastronomica o di cucina, e Piero Paciello che dirigeva questo giornale, Protagonisti, vide in me un protagonista dei tempi e quando mi dedicò la copertina fu una sorpresa bellissima. Cucina, professionalità, espressività, lui vedeva già questo”.
Il suo punto di riferimento è stato invece Beppe Zullo. “Per me è un grande maestro sulla territorialità che ancora oggi ha molto da dire. Un punto di forza, per noi, non solo pugliese. Io lo guardavo quando ho aperto, cercavo di capire cosa voleva trasmettere con la cucina. E lui quando parla di erbe, olio, territorio, è lui. Non c’è nulla da dire. Oggi la paura è quella di non vedere un ricambio generazionale. Vedo tanti giovani, un po’ falsi d’autore, più modaioli che competenti. E a questo bisognerebbe rimediare. I giovani si sentono quasi arrivati e non va bene. Con le grandi scuole alberghiere non c’è coinvolgimento, non vengono qui, la scuola è ancora troppo slegata. Bisogna Parlare di territorialità.
Di olio. Se parliamo di olio, ecco, mi viene da dire che questa è la parte sacra della mia cucina. L’olio extravergine. È la nostra espressione, l’olio siamo noi, perché con l’olio dai carattere a un piatto. E’ l’essenziale. Senza olio qualsiasi cosa non va. E’ come l’anima. Nella mia cucina non può mancare, come in ogni cucina di casa”. E una casa è il suo ristornate, aperto con la moglie, in cui si sono unite due passioni e due vite. “E’ stato bello. Io ho bisogno di lei e lei di me anche se a volte siamo distanti nelle visioni. Lei come me è passionale, un po’ sergente di ferro professionalmente parlando, con questa passione per l’interior è diventata per me una compagna di gestione, una consulente nella ricerca del bello, in cucina, un pò art director, anche nei piatti. Lei assaggia e suggerisce. Mi raffina. Lei è espressione di raffinatezza. Abbiamo avuto due figli ed entrambi sono a lavoro nei settori della moda”. E il successivo ristorante, nato 12 anni fa, sembra appena finito. Clienti estasiati, ma una città con cui Gegè ha legato poco. E lui non sminuisce. Dice che questo lo ha fatto soffrire. “Ne facevo di tutti i colori, lo chiedevo, a loro di venire, organizzavo serate a tema. Ma non ho mai avuto clienti di Monte Sant’Angelo. Non me lo chiedere, perché, perché non lo so”. Oggi i suoi clienti sono stranieri, viaggiatori, gente italiana che viene perché lui è sulle guide e questo posto diventa meta e punto di riferimento. Intercetta un turismo enogastronomico che è più colto, più esigente, più preparato, sia di quello balneare che di quello religioso. Una clientela che parte da lontano per venire a cena qua, dormire e poi ripartire. Mangiano il territorio. E lo adorano. Mugnoli. Broccoli. Agnello. Formaggi. Dolci. In questi anni i capitoli della storia di Gegè sono stati tanti. I ricordi si affacciano. C’è stato Gargano punto e basta. “Siamo ancora legati e ci crediamo. Già dieci anni fa creammo con altri chef pugliesi Buona Puglia Gusto da visitare. Eravamo professionisti, produttori albergatori, ristoratori e chef, partiti in dieci e oggi oltre duecento cinquanta, per fare rete e stare insieme. C’eravamo io e Beppe ed era davvero bello”.
Uno chef che cresce insieme al territorio e insieme al cliente. “Mi avvicino, chiedo a loro, mi faccio dire cosa ne pensano dei piatti. Mi ritengo bravo ad ascoltare con umiltà il cliente che ti da degli spunti positivi”. Questo l’ha capito subito. Quando entri nel circuito dei ristoranti gourmet ti devi approcciare in modo attento, competente. Anche il ruolo dell’informazione diventa determinante.
“La parte mediatica mi ha aiutato molto”. Uno dei primi ad andare a fare Gambero Rosso in tv in una roulotte. Dotato di una straordinaria capacità di esporsi mediaticamente. Un animale da palcoscenico, che alimenta quel lato un po’ teatrale che affascina lui e che piace al pubblico, e anche al cliente. “Io devo divertimi, il mio locale si chiama casa per questo. Nasce casa perché quando ho aperto, era marzo, c’era una nebbia fitta e pioveva. Erano le due di pomeriggio, non c’era passato nessuno, in giro. Io mangiavo io con i miei figli e mia moglie. Mentre pranzavamo, vedo aprire questa porta ed entra un giapponese mi chiese se siamo aperti. Io dico siamo chiusi, ma se vuoi entra e pranza con noi. Lui si siede, con noi, mangia delle ostie un po’ di vino e poi mi chiede il conto. Io dico, niente, vada, non ho fatto clienti”. Questo giapponese si era intrufolato nel centro storico e li aveva trovati per caso. “L’anno dopo inizio a vedere una marea di giapponesi che mi venivano a cercare. E non capivo il motivo. Poi uno dice: tu sei famoso in Giappone, stai su una guida che ha scritto il rettore dell’Università di Tokyo di Architettura. Era quell’uomo che aveva aperto la porta, che aveva raccontato questa storia”. Scriveva un libro sul Centro Sud e ha dedicato 12 pagine sul locale di Gegè.
Zone Transition
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“Non sono entrato in un ristorante, ma in una casa dove la famiglia Mangano mi ha accolto”, scrive. E di lì l’idea che questo posto resti sempre una casa. Lo chef è legato a doppio filo all’Università, con due visite in incognito, questa del giapponese e quella del professore che poi lo ha invitato in Bocconi. Ma lui non dice che si tratta di una buona stella. Non crede nel fato. Crede che sia merito di San Michele. “Sono un credente cattolico”. Con lui ha un forte legame. “Anche nei momenti più brutti ho cercato una chiesa dove ci fosse un San Michele per parlare con lui. Non so prepagare, ma lo cerco e ci parlo come se lui fosse un amico”.