Stella Maris, da accusatori ad accusati. Si difendono i testimoni licenziati: “Noi non complici”

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Licenziati perché “inermi spettatori” delle violenze perpetrate dai colleghi all’interno della residenza socio assistenziale Stella Maris di Manfredonia: questa la “giusta causa” con cui la governance della struttura, finita nell’occhio del ciclone nei mesi scorsi, ha allontanato alcuni dipendenti. La vicenda è ormai tristemente nota: a finire in arresto (ai domiciliari) quattro operatori sanitari, accusati di violenze e vessazioni psicofisiche nei confronti di anziani non autosufficienti ospiti della Rssa. Sin da subito i vertici dell’ente gestore hanno affermato di essere totalmente all’oscuro di quanto accadesse ai pazienti (e quindi non responsabili) e proprio sulla base di questa affermazione hanno proceduto a licenziare i dipendenti che, a loro dire, non avrebbero avvisato i responsabili per far sì che si ponesse fine a quelle condotte.

Non ci stanno però i lavoratori che hanno impugnato il licenziamento davanti al giudice del lavoro, non solo per una questione di carattere legale ma anche morale, per non essere cioè considerati in qualche modo complici degli accusati di quei fatti aberranti. Di recente, un magistrato si è espresso su un singolo caso, rigettando il ricorso. Fin qui sembrerebbe un percorso lineare ma in realtà leggendo la sentenza sorge più di un dubbio.

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E’ quello che ritiene anche l’avvocato Vincenzo De Michele, legale del primo Oss su cui i giudici del lavoro si sono espressi (su un totale di 4 ricorsi di altrettanti operatori, sempre assistiti da De Michele). Alla base della contestazione del licenziamento c’è il racconto dei diretti interessati i quali sin da subito, riferisce il loro legale “hanno sostenuto di aver più e più volte avvisato i responsabili della residenza di quello che alcuni dipendenti facevano sistematicamente agli ospiti. Non solo, gli stessi sono stati sentiti dagli inquirenti anche in qualità di testimoni nel procedimento penale in corso, a carico di 5 indagati, supportando la loro versione dei fatti con una serie di prove, tra cui messaggi, report sulle lesioni presenti sui degenti e quant’altro”.

Eppure il giudice del lavoro ha ritenuto che bene avrebbe fatto la Stella Maris a licenziarli perché “non può non ritenersi che proprio l’avere constatato che la direttrice, ogni volta, minimizzava quanto le veniva riferito, e che tale disinteresse (o peggio) era sistematico, imponesse al ricorrente di percorrere altre vie, anche a costo di inimicarsi i colleghi di lavoro”.

Per contro, proprio nella sentenza sono riportati stralci della testimonianza resa al Gip dall’Oss: ci sono episodi che dimostrerebbero le avvenute segnalazioni sulle violenze commesse, che avrebbero peraltro provocato l’isolamento dello stesso da parte dei colleghi.

A tal proposito il giudice del lavoro dichiara: “Il contenuto dei messaggi WhatsApp invocati dal ricorrente non integra una rituale segnalazione di quei gravi episodi, la consapevolezza dell’inerzia dei suoi superiori avrebbe imposto di segnalare i fatti all’Autorità; e ciò non è avvenuto. Sia chiaro che l’inerzia dei superiori gerarchici della struttura è, in questa sede, oggetto di mera ipotesi, vagliata solo in quanto invocata dal ricorrente a giustificazione del proprio operato, per chiarire per quale ragione, pur dando per vera quella affermazione, pure oggetto di richiesta di prova per testi, si ravvisi violazione dell’obbligo di garanzia”.

“Tanto per cominciare – ricorda in premessa De Michele a l’Attacco - nella memoria difensiva, recepita dal giudice, depositata da Stella Maris si riporta un episodio di violenza datato 17 giugno 2020 ma in realtà si tratta di un fatto accaduto nel 2022 (come peraltro indicato nell’ordinanza cautelare), un grave errore che potrebbe far pensare che l’omertà del mio assistito durasse addirittura da anni, quando in realtà non è così”.

Ma l'avvocato fa un passo indietro: “Ho conosciuto il denunziante originario, si rivolse a me per chiedere la mia assistenza in ambito giuslavoristico ma ho ritenuto che non ci fossero le condizioni che mi avrebbero consentito di tutelarlo. Secondo informazioni in mio possesso, alcuni fatti sono legati a quanto accaduto il 24 giugno, quando le forze di polizia nottetempo si sono introdotte nella struttura per posizionare gli strumenti di intercettazione ambientale. È chiaro che in quella fase le indagini erano già partite (in realtà è verosimile pensare che le indagini fossero in corso da almeno una decina di giorni, secondo le dinamiche che gli stessi inquirenti elencano nelle ordinanze, ndr) e di questo erano perfettamente consapevoli i miei assistiti, non solo perché sono stati chiamati a testimoniare ma perché quella notte erano presenti in struttura e hanno assistito all’accesso delle autorità. Di lì a poco sono scattati gli arresti”, eppure il giudice del lavoro ha considerato omertosa la condotta degli Oss licenziati che avrebbero dovuto, come detto, rivolgersi alla magistratura. C’è da chiedersi che senso avrebbe avuto fare una ulteriore denuncia sapendo che l'inchiesta era già in corso.

Desta perplessità anche l’ipotesi di mettere a conoscenza i dirigenti della struttura della stessa inchiesta, considerate tutte le misure a tutela del segreto istruttorio e della riservatezza. Il giudice del lavoro però ha sottolineato in sentenza che gli atti del procedimento sarebbero stati in quella fase pubblici, una interpretazione che non convince De Michele.

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Per tutta questa serie di elementi, il legale continua a sostenere la sua ipotesi: “Intendo dimostrare che si tratta di un licenziamento intimidatorio e ritorsivo, nei confronti di testimoni, a cui si contesta che quanto dichiarato all'autorità giudiziaria è falso, in particolare ciò che riguarda gli avvisi delle violenze ai responsabili della struttura. Ma il punto più grave credo stia nel fatto che l'autorità giudiziaria civile, il giudice del lavoro, abbia scavalcato l'autorità giudiziaria penale con un suo giudizio etico che non gli era stato richiesto. Ora aspettiamo le altre tre pronunce, anche se in linea di principio ci dovrebbe essere preliminarmente un confronto tra i giudici interessati per assicurare un'omogeneità nelle decisioni. In più ci sarà un ricorso in appello per questa sentenza che non convince. Si parla di mera ipotesi, sul fatto che i responsabili sapessero delle violenze. In realtà è quello l'oggetto dell'indagine, è ciò che va verificato. Ammesso che sia possibile licenziare per questo motivo (cosa che io contesto), il primo presupposto, l'omertà nei confronti dell'azienda, è un'omertà obbligata dal legislatore per il segreto istruttorio. E forse la prova che il giudice del lavoro non abbia colto appieno cosa sia accaduto sta nel caso dell'originario accusatore”, ha concluso l’avvocato.

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