Anziché essere a casa in malattia, a causa di “febbre con vomito”, il dipendente di un punto vendita Despar di San Severo serviva ai tavoli del pub di famiglia. Scoperto tramite un’agenzia di investigazioni, ingaggiata dall’impresa, è stato licenziato. Ora il Tribunale di Foggia Sezione Lavoro, ordinanza del 16 dicembre scorso, ha confermato la legittimità del licenziamento per giusta causa.
Il caso riguarda la società coratina Maiora srl - che svolge attività di centro di distribuzione marchio Despar in Puglia, Basilicata, Calabria e Abruzzo con oltre 2mila dipendenti - che si era attivata nei confronti del dipendente sanseverese, il 36enne Mario Ungaro.
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La decisione è stata assunta dalla giudice Aquilina Picciocchi all’esito della fase sommaria di un giudizio Fornero. Ungaro, dipendente della società con contratto a tempo indeterminato part-time con qualifica di operaio addetto alla vendita/repartista, difeso dagli avvocati foggiani Guido Celentano e Bruno Colavita, a luglio 2022 aveva fatto ricorso contro il licenziamento per giusta causa adottato il 23 dicembre scorso da Maiora srl, assistita dagli avvocati Pasquale, Michele e Maria Antonia Fatigato di Foggia. Licenziamento scattato a seguito di procedimento disciplinare avviato con contestazione del 16 dicembre. Il fatto risale ai giorni 10, 11 e 13 novembre scorsi.
L’uomo era assente per malattia dal punto vendita di via Caduti di Via Fani, a San Severo, come attestato dai certificati di malattia telematici di inizio per i giorni 9 e 10 novembre e continuazione per i giorni dall'11 al 13 novembre. In giudizio la difesa di Ungaro ha sottolineato che era stato certificato lo stato di malattia e che il datore di lavoro non aveva chiesto interventi di verifica della malattia stessa. Inoltre ha contestato le indagini investigative svolte dal datore di lavoro poiché gli unici preposti ad accertare la malattia sono i servizi ispettivi degli istituti previdenziali competenti.
Ungaro ha affermato che, a causa dello da stato influenzale con vomito, aveva ricevuto una prima certificazione per giustificare le assenze nelle giornate del 9 e 10 novembre. Nella serata del 10 novembre, ritenendo di poter tornare al lavoro il giorno seguente, è uscito recandosi al pub di proprietà della famiglia dove si è intrattenuto offrendo, “per spirito familiare”, anche un aiuto nel disbrigo di alcune faccende semplici (come prendere alcune ordinazioni o consegnare merce da asporto). La mattina del 11 novembre, però, a causa di un riacutizzarsi dei problemi intestinali, si è dovuto assentare nuovamente dal lavoro. La difesa ha considerato sproporzionato il licenziamento comminato chiedendone revoca e risarcimento.
Gli investigatori hanno portato, peraltro, anche un reportage fotografico nel quale si vede l’uomo indossare una felpa con il logo del pub e tutte le azioni compiute.
Investigazioni legittime, secondo la giudice: “La relazione investigativa può essere valutata ai fini della prova: infatti, secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale, del tutto condivisibile, le informazioni sul lavoratore raccolte dal datore di lavoro mediante il ricorso ad accertamenti investigativi non sono in contrasto con lo Statuto dei lavoratori qualora abbiano ad oggetto fatti rilevanti al fine di valutare l’attitudine professionale del dipendente, nella cui sfera può farsi rientrare anche, come nel caso di specie, la condizione di malattia o di inidoneità fisica del lavoratore”.
Secondo la giudice di Foggia, Ungaro, “indossando la felpa con il logo del pub, servendo ai tavoli, prendendo le ordinazioni, incassando il dovuto abbia di fatto svolto attività lavorativa, anche se a titolo non oneroso, a favore dello zio della moglie a “corto di personale”, raggiungendo il pub anche a bordo di un monopattino elettrico in giorni di novembre e di sera, ha assunto un comportamento incompatibile con lo stato di malattia denunciato febbre con vomito”. “Nella comparazione tra il diritto personalissimo alla salute e l’interesse dell’impresa”, continua l’ordinanza, “prevale sicuramente il diritto alla salute, ma gli strumenti normativi ed i benefici economici che assistono il lavoratore sono esclusivamente funzionalizzati al recupero dell’integrità fisica, per consentire la ripresa dell’attività lavorativa nel più breve tempo possibile. Devono essere quindi esaminati con rigore quei comportamenti che possono tradursi in un ritardo del recupero fisico del lavoratore. In sostanza, il dipendente malato deve fare tutto il possibile per guarire presto, ma soprattutto non deve mettere in atto comportamenti – siano essi lavorativi o di svago e divertimento – anche solo potenzialmente idonei a pregiudicare o ritardare il rientro in servizio”.
Conclude pertanto il Tribunale: “L'espletamento di altra attività lavorativa o di mera collaborazione familiare da parte del lavoratore durante lo stato di malattia è idonea a violare i doveri contrattuali di correttezza e buonafede nell'adempimento dell'obbligazione, posto che servire ai tavoli, prendere le ordinazioni, incassare, andare avanti e indietro con l’auto oppure in giro con il monopattino elettrico a novembre di sera, trattenersi presso il pub almeno fino alle ore 23:00, sono comportamenti di per sé indici di una scarsa attenzione del lavoratore alla propria salute ed ai relativi doveri di cura e di non ritardata guarigione”.
Ecco perché la giudice ha ritenuto che tali condotte “rappresentino violazioni di tale entità da non consentire la prosecuzione, neppure temporanea, del rapporto di lavoro, tenuto conto della violazione gravemente colposa dei doveri di lealtà e correttezza e della natura degli addebiti. Pertanto correttamente la società ha ritenuto che fosse venuto meno il rapporto di fiducia tra datore di lavoro e dipendente”. Se non altro la giudice ha compensato le spese anziché farle pagare al solo Ungaro.
Gli addetti ai lavori del Tribunale del lavoro commentano con cautela tale ordinanza, ricordando che si tratta della fase sommaria del rito Fornero e dunque “ancora agli albori della decisione”, per quanto sia stato comunque dato un segnale. Ora resta da capire cosa sia avvenuto in fase di opposizione.
Ma c’è anche un’altra questione che suscita interrogativi. Nel pubblico avviene lo stesso? Pare proprio di no. L’Attacco mesi fa diede spazio all’emblematica vicenda del dipendente pubblico di Manfredonia, che lavorava presso il Castello, scoperto mentre – nell’assenza per malattia dal luogo di lavoro – portava avanti il bar di famiglia sul porto turistico Marina del Gargano. Le forze di polizia scoprirono il caso di assenteismo, in flagranza e dopo molteplici segnalazioni giacché ripetuto, e interrogarono anche il medico che aveva rilasciato i certificati di malattia. Il sipontino non ha perso il posto di lavoro.
Zone Transition
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“E’ chiaro che nell’immaginario collettivo c’è ancora l’impossibilità di licenziare i dipendenti pubblici. Molti pensano che tali lavoratori del pubblico siano protetti al punto da essere inamovibili”, commenta a l’Attacco il giuslavorista foggiano Fabrizio Cangelli. “Ma non è proprio così. La privatizzazione del rapporto di lavoro pubblico è iniziata negli anni ‘90 e proseguita con la riforma Brunetta. Almeno in teoria è così, perché di fatto il numero di licenziamenti nel settore pubblico resta molto basso e non è nemmeno lontanamente comparabile a quanto avviene nel privato. Si fa molta più fatica a licenziare rispetto al privato”.