Lucera, il Cav non ha una vera stanza per ricevere le donne vittime di abusi

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Da poco più di un anno e mezzo è tornato a funzionare in maniera stabile il Centro Anti Violenza di Lucera, intitolata alla memoria di Giovanna Tanese, la 16enne che fu assassinata dal suo fidanzato a colpi di pietra in un casolare di campagna il 22 aprile 2005. Quelli erano tempi in cui non esisteva ancora nel linguaggio comune della cronaca la parola “femminicidio”, il gesto estremo di un fenomeno che però (e per fortuna) conta ancora livelli intermedi, più o meno gravi, quasi totalmente a danno delle donne che in effetti si rivolgono a strutture del genere per trovare conforto, indicazioni e suggerimenti sul proprio drammatico caso.

Lo sportello è il riferimento dell’intero Ambito del Piano sociale di Zona che conta anche altri 13 piccoli Comuni dei Monti dauni (Alberona, Biccari, Carlantino, Casalnuovo, Casalvecchio, Castelnuovo, Celenza, Motta, Pietra, Roseto, San Marco la Catola, Volturara e Volturino), per un totale di circa 50 mila abitanti.

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Il Centro è aperto materialmente quattro giorni alla settimana (lunedì e mercoledì e giovedì al mattino e martedì e giovedì il pomeriggio) e ha sede nei locali dell’ex biblioteca di Palazzo Mozzagrugno dove, però, non dispone di spazi adeguati alle delicatissime esigenze delle utenti, tanto che per effettuare i colloqui privati bisogna ricorrere a una stanza condivisa a fasce orarie con le funzionarie comunali, o addirittura trovando ospitalità da un soggetto privato che opera a poca distanza, senza contare che la postazione principale è ricavata dentro un open space non schermato ma “visibile” da una semplice vetrata, con evidente violazione della riservatezza di chi vorrebbe rivolgersi per chiedere assistenza con discrezione.

“In realtà stiamo molto meglio rispetto a qualche mese fa – ha rivelato la coordinatrice Roberta Laccetti – perché prima accoglievamo le donne in un anti bagno che era luogo di passaggio di persone. Adesso riusciamo a gestire gli orari degli appuntamenti in funzione delle esigenze dell’altro personale in servizio, ma lo facciamo correndo tutti meno rischi”.

Attualmente il Centro viene condotto dalla cooperativa Ferrante Aporti di Brindisi che ha assunto l’incarico nell’estate 2021, a fronte di un compenso di 40 mila euro per un periodo di 18 mesi già scaduto, ma prolungato grazie a un nuovo progetto temporaneo dell’Ambito che terminerà in autunno, in attesa di individuare poi un nuovo gestore del servizio. 

Ma la burocrazia, le terminologie, gli stanziamenti economici e le tempistiche restano questioni asettiche se poi non hanno un risvolto concreto ed efficace sulla popolazione, e allora l’organismo è in grado tracciare un bilancio, seppure parziale, di quanto fatto finora, specie per gli ultimi sei mesi del 2022.

Si tratta di un’utenza relativamente piccola dal punto di vista numerico (17 in totale), ma in realtà ogni storia nasconde un micro mondo assolutamente diverso da tutti gli altri, e che richiede comportamenti unici e irripetibili nella loro gestione appropriata, perché tali sono le caratteristiche.

E in effetti, analizzando i dati, dentro si può trovare di tutto, a partire dal fatto che la stragrande maggioranza (14) ha preso l’iniziativa spontaneamente, mentre nelle fasce di età, quella più colpita è tra i 40 e i 49 anni che è circa la metà delle utenti conosciute. Sono tutte italiane e quasi sempre con figli (15), in totale se ne contano 33, tra minorenni e maggiorenni, comunque interessati più o meno direttamente a quanto sta accadendo alle rispettive madri, tra 5 nubili, 7 sposate, 3 separate e 2 divorziate. Anche il contesto economico ha la sua valenza, perché in 13 hanno dichiarato di non avere una potenziale autonomia finanziaria, mentre il livello di istruzione e i titoli di studio sono distribuiti piuttosto equamente.

I due tipi di violenza più riferiti sono quella fisica e psicologica, ma non manca lo stalking, quella economica nelle sua varie modalità e risulta anche un episodio di natura sessuale, i cui autori rappresentano una platea piuttosto vasta, partendo dal coniuge e finendo al partner, più o meno convivente, ma ci sono pure casi relativi agli stessi figli.

La metà di esse ha presentato denuncia alle forze dell’ordine, quasi sempre ai carabinieri che hanno una struttura più specifica organizzata sul territorio, e questo è un dato molto incoraggiante, perché uno dei problemi correlati al fenomeno è che molto spesso le donne non si proteggono, partendo proprio dalla ricerca del “riparo” sotto gli organismi dello Stato. Uno studio ha analizzato i casi delle 200 donne uccise nel biennio 2017/2018. Di queste, l’85% non aveva mai fatto una denuncia e, addirittura, il 63% non aveva detto a nessuno di subire violenza e di temere per la propria incolumità. È la fotografia della solitudine delle vittime, quella che quindi non “avvisa” di certi gesti estremi che poi sembrano spuntare dal nulla, con una imprevedibilità che lascia doppiamente sgomenti.

Un terzo delle donne considerate al Centro di Lucera ha comunque dovuto ricorrere alle prestazioni di un pronto soccorso, e praticamente tutte hanno manifestato come bisogno primario quello dell’ascolto, ma subito dopo è stato necessario avviare attività di consulenza psicologica, sociale e legale, oltre ad assistenza economica e alloggiativa.

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“Quando arrivano da noi – ha detto Laccetti – le donne sono già psicologicamente prostrate da un apparente senso di colpa, e quindi bisogna fare un lavoro di ricostruzione della propria identità e consapevolezza sociale, anzitutto uscendo dall’isolamento nel quale spesso sono finite, tra amici e parenti. Bisogna abbattere la cultura omertosa e la sensazione di vergogna, perché praticamente tutte nel corso del tempo hanno normalizzato e quindi minimizzato quanto le sta accadendo”.

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