“Convocata dai Carabinieri per sapere il nome del pusher di droga e dalla Questura per una loro dichiarazione su un fatto di cronaca”

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Ho sempre pensato che quando sei un giornalista e ti chiamano i Carabinieri per una chiacchierata su una tua inchiesta o su un pezzo, è un buon segno, perché vuol dire che hai fatto bene il tuo lavoro. Eppure dopo numerosi anni di lavoro, fatto anche di cronaca nera, mi sono dovuta ricredere. Quando ti chiamano i Carabinieri per una chiacchierata non è un buon segno. Ricevo infatti un pomeriggio di due settimane fa una telefonata da un numero di cellulare che non conoscevo sul mio cellulare. Rispondo.

La persona dell’altra parte si qualifica come Carabinieri di Foggia e mi dice che dovrei andare in caserma per una chiacchierata. Chiedo con chi sto parlando, il nome e il grado, insomma, e anche qual è il motivo di questa chiacchierata. Mi viene detto che ha a che fare con un mio pezzo su San Giovanni Rotondo e un presunto giro di spaccio all’interno dell’ospedale. E mi viene detto che si tratta solo di una chiacchierata informale.

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All’appuntamento vengo accompagnata nell’ufficio del tenente che mi aveva chiamata. Siamo solo io e lui.
Inizia la chiacchierata. E inizia con domande che hanno a che fare sulla mia professionalità. Mi viene cioè chiesto, mostrandomi la gigantografia del mio articolo, se io abbia accertato la veridicità delle mie fonti. Se abbia cioè, prima di aver scritto, appurato che la mia fonte non fosse spinta da manie di protagonismo, esibizionismo o altro. Replico dicendo che non sono lì per essere valutata nelle mie qualità professionali e chiedo di capire meglio il motivo di questa convocazione. Mi vengono letti alcuni passaggi da me scritti nel testo e mi viene chiesto prima come abbia avuto quelle informazioni, poi mi vengono poste domande dirette volte a conoscere il nome della mia fonte e in particolare del pusher di cui parlo. Rispondo dicendo che non ho intenzione di rivelare la mia fonte, né di fare in quella sede alcun nome.

Il tenente prova a mettermi a mio agio, chiacchierando di altri argomenti, ma tendo a mantenere un atteggiamento di distacco, non confidenziale. Fino a quando il tenente mi chiede un documento. E solo allora mi informa che avrebbe verbalizzato la nostra chiacchierata. Dico che non lo sapevo e che mi era stata prospettata una informale conversazione e lui mi dice che se voglio posso andare via e che mi avrebbe mandato i Carabinieri a casa e convocata ufficialmente. Allora chiedo di poter inserire alcune considerazioni nel verbale. Lo leggo e lo firmo, ma non ricevo alcuna copia.

Prima di andare via, il tenente mi propone di nuovo una chiacchierata informale davanti a un caffè. Rifiuto l’invito, sottolineando che non ho gradito i suoi modi e che una chiacchierata informale è ben diversa da una verbalizzazione. Gli dico inoltre, che non siamo noi giornalisti a fare le indagini. E che trovo poco corretto che a finire sotto accusa, dovendo specificare se siamo certi di aver fatto il nostro lavoro bene, siamo noi, a cui viene chiesto di rivelare fonti e nomi. Nel caso specifico, quello in questione era solo uno di due pezzi simili e pubblicati a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro, sullo stesso argomento. Ma il tenente non era affatto a conoscenza dell’altro pezzo, e nemmeno del contesto in cui era nata quella inchiesta.

Aveva premura di domandarmi il nome del pusher e il nome dei consumatori di droga. Ho ribadito che di quel giro di spaccio io ero venuta a conoscenza per caso, essendo sul posto per una indagine di altra natura. Avevo scoperto la normalità quindi, dello spaccio e del consumo di droga, non solo in ospedale, motivo della sua convocazione, ma anche in diversi e vari ambienti. Ho fatto a mia volta qualche domanda a cui ho ottenuto come risposta, solo una semplice rassicurazione. Che i Carabinieri sono dalla mia stessa parte. Eppure interrogano me.

Sono andata via con il presentimento che questo episodio fosse un brutto segnale. Un segnale distorto della libertà di informazione e del rapporto fra forze dell’ordine e giornalisti. E ne ho avuto conferma pochi giorni dopo, questa volta avendo a che fare con la Questura.

Scrivo della vicenda dell’imprenditore che pubblica su Facebook il volto del ladro e chiamo in Questura per raccogliere una posizione della Polizia. Parlo con la persona incaricata di tenere i rapporti con la stampa. Mi qualifico come giornalista e dico che sto scrivendo un pezzo e che devo inserire la posizione della Questura. Mi viene detto dalla persona che deve occuparsi di questo, che non conosce il caso, ma che secondo quanto gli ho raccontato, a prescindere dalla diffusione su canali privati e personali, è necessaria la denuncia.

Inserisco questa posizione nel mio pezzo e l’indomani ricevo una telefonata della persona con cui avevo parlato che mi dice che non avrei dovuto scriver nulla di quella conversazione, perché lui non era autorizzato a rilasciare alcuna dichiarazione. Gli chiedo se è lui a tenere i rapporti con la stampa e mi dice sì. Gli dico che io mi sono qualificata come giornalista e che non ho scritto nulla di diverso da quanto detto. Insiste che non avrei dovuto. Allora gli chiedo con chi parliamo noi giornalisti, se la persona autorizzata a farlo, non è autorizzata?

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Come facciamo a fare il nostro lavoro se nella volontà di farlo bene, di raccogliere quindi, come nel caso della Questura, posizioni ufficiali, o di attivare indagini, come nel caso dei Carabinieri, sotto accusa finiamo noi?

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