Per chi fa il mio mestiere, non è insolito ricevere la telefonata di un carabiniere, un poliziotto, un finanziere: la ragione più o meno è sempre la stessa, qualcuno ritiene di essere stato in qualche modo leso da un mio articolo e chiede alla magistratura di indagare. La chiamata serve per invitarmi presso la stazione di riferimento per notifiche, riconoscimenti e vari adempimenti burocratici. Quel sabato pomeriggio del marzo scorso, vedendo comparire sul display del mio cellulare un numero noto,
ho pensato che si trattasse della comunicazione relativa ad un procedimento a mio carico. Invece ho scoperto di essere stata convocata come testimone. Era la mia prima volta. Il caso ha voluto che in quei giorni mi sono dovuta allontanare, anche dal lavoro, per questioni personali e quindi ho avuto il tempo per potermi arrovellare il cervello e cercare di capire su quale caso fossi stata chiamata a testimoniare. L’operatore delle forze dell’ordine ha naturalmente mantenuto il riserbo durante la chiamata ma io più o meno mi ero fatta un’idea di cosa potesse volere da me la magistratura. Non essendo stata convocata in tribunale ma in una sede delle forze dell’ordine, ho intuito che il procedimento fosse in una fase preliminare, evidentemente gli inquirenti stavano ancora raccogliendo elementi “sul campo”.
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Dopo qualche giorno, rientrata alla mia normalità, vado ad espletare il mio dovere di cittadina.
Sono stata accolta con molto garbo e sono stata messa subito a mio agio dall’operatore addetto a sentirmi ma devo riconoscere che ogni volta che mi sono confrontata con i rappresentanti delle forze dell’ordine ho ricevuto un pari trattamento, il che mi ha sempre fatto credere che quei servitori dello Stato nutrano molto rispetto per il lavoro dei giornalisti. Insomma, quasi a dire: “siamo dalla stessa parte”. Non so se sia effettivamente così ma questa convinzione mia personale l’ho trovata sempre molto rassicurante.
Molto più sorprendente ho invece trovato l’oggetto della testimonianza: l’indagine sul concorso per la nomina del direttore della centrale operativa 118 del Policlinico Riuniti di Foggia. Credo di aver sbarrato letteralmente gli occhi di fronte all’operatore, abbandonando per un attimo la proverbiale neutralità espressiva da bleffeur giocatore di poker che ogni giornalista deve mostrare, anche di fronte allo scoop più eclatante. Una vicenda esauritasi dal punto di vista giudiziario e alla quale non pensavo sinceramente più, anche perché si era chiusa con il proscioglimento “perché il fatto non sussiste”, del protagonista del fatto, il dottor Stefano Colelli, attuale primario della struttura, vincitore di quella procedura concorsuale. L’imputato rispondeva di falso in atto pubblico ed è stato prosciolto dopo essere stato ascoltato in udienza preliminare. Insomma, come si dice in queste circostanze: caso chiuso. Ed era chiuso da almeno 2 mesi e io avevo raccontato la vicenda in diversi articoli già a partire da aprile 2021. Cos’altro si poteva aggiungere alla storia? Mi chiedevo.
L’operatore è partito facendomi domande generiche: se avessi scritto della vicenda, quante volte e così via. Dopodiché gli interrogativi si sono fatti più specifici ed erano tutti orientati a capire come e da chi avessi ottenuto certe informazioni comparse nei miei pezzi. Tutto quello a cui riuscivo a pensare in quel momento era solo la lezione numero uno che in ogni redazione o scuola di giornalismo si impara (e si ripete per sempre come un mantra): le fonti non si rivelano neanche al padreterno.
Non fu peraltro difficile in quella precisa circostanza adempiere al sacrosanto insegnamento perché, giuro vostrono’, non mi ricordavo davvero come venni a conoscenza di quelle informazioni e così risposi al mio interlocutore, precisando che non ero colpita da una forma precoce di demenza senile dovuta a qualche notte insonne tra amici di troppo (no, questo non l’ho detto davvero) ma semplicemente se ad un giornalista sfugge la circostanza in cui ha saputo una informazione è perché, se fa bene il proprio lavoro, quotidianamente ha a che fare con una quantità enorme di persone, fonti dirette e indirette, che raccontano, parlano, riferiscono, scrivono, mandano documenti di ogni genere, tenere tutto a memoria, a distanza di mesi, è molto difficile. Siccome, tra l’altro, non ero andata “preparata” alla mia testimonianza non avrei potuto davvero, pur volendo, riferire ciò che mi chiedevano.
Avviatici alla fine del colloquio, è venuta fuori la mia vena giornalistica e una domanda l’ho fatta io al mio interlocutore: “Quindi si indaga su una fuga di notizie?”. Non ci fu risposta alcuna e la mia intuizione, alimentata dal fatto che le domande più significative erano mirate a conoscere l’origine delle informazioni venute in mio possesso, è rimasta tale.
Verbalizzato tutto, firmato l’atto, sono andata via.
Zone Transition
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Da allora sono passati quasi 4 mesi e non ho più saputo nulla di quella vicenda alla quale peraltro non ho più pensato fino ad ora, momento in cui il dibattito sulla libertà di cronaca e dei giornalisti di recepire informazioni, anche attraverso canali ufficiosi, che spesso sono i più efficaci, si è aperto. E mi chiedo: se ci fosse preclusa la possibilità di fare inchieste giornalistiche complete, che possano cioè arricchirsi di elementi che non derivino solo da una fonte (che ha facoltà di filtrare le informazioni da diffondere), che conseguenze ci sarebbero sulla democrazia?